venerdì 28 agosto 2009

18. Il contratto politico

Il riconoscimento della sovranità popolare non sarebbe avvenuto se non si fosse sviluppato il dibattito sul contrattualismo. Possiamo dunque affermare che la democrazia è figlia del contrattualismo, ma lo è in modo diverso, a seconda che si tratti di DD o di DR.

18.1. Il contratto politico DD
Anche la DD accetta l’idea di «contratto», ma in un senso diverso da quello maturato dal pensiero moderno. Il contratto DD, infatti, non è una semplice finzione euristica collocata in un ipotetico stato di natura, ma un contratto vero e proprio, che si colloca nello stato presente e viene stipulato realmente fra ciascun individuo, una volta che sia pervenuto all’età adulta, e il popolo, anche se in forma non necessariamente scritta. In uno Stato DD, il contratto potrebbe essere celebrato nella comunità locale di residenza fra un giovane che abbia appena raggiunto l’età adulta e il sindaco, o chi per lui, e potrebbe suonare come segue.
“Noi cittadini di questo Stato, consapevoli che siamo destinati a morire e desiderando che la società degli uomini continui anche dopo di noi, abbiamo deciso di farti nascere e ci siamo addossati la responsabilità di questa decisione. In linea di principio, abbiamo assunto che tu sia potenzialmente capace di autodeterminarti e ti abbiamo riservato il diritto sovrano di elaborare il tuo programma di vita. A tale scopo ci impegniamo a garantirti il diritto alla vita e a fornirti tutto ciò che ti è stato necessario per un’esistenza dignitosa, elargendoti un reddito minimo garantito (RMG). Abbiamo assunto che tu un giorno vorrai essere lasciato libero di perseguire la tua felicità e di scegliere il modo di conseguirla, ed è per questo che noi ti consideriamo uguale ad ogni altro essere umano di pari età.
Tutto ciò noi abbiamo fatto in modo unilaterale, poiché tu non eri in grado di esprimere una decisione responsabile. Ora che hai raggiunto l’età adulta, ti chiamiamo a decidere liberamente se accettare o meno i termini di questo contratto. Se rifiuterai di sottoscriverlo, noi continueremo a riconoscerti il diritto al minimo, perché riconosciamo che siamo stati noi a chiamarti in questo mondo e nostra è la responsabilità della tua esistenza. Se invece lo accetterai, come ci auguriamo, dovrai osservare le stesse regole che noi ci siamo date, allo scopo di ordinare le nostre vite. Sono le regole della DD, le quali prevedono che le risorse della terra appartengono a tutti, cioè al popolo, che tu sarai ricompensato per il contributo che vorrai dare alla causa comune in proporzione ai tuoi meriti e che sarai libero di spendere i tuoi guadagni come meglio crederai. Potrai acquistare ogni cosa. I beni immobili ti verranno venduti dal popolo e, alla tua morte, ritorneranno al popolo. Se le regole che troverai non ti dovessero piacere, potrai provare a cambiarle. Spetterà a te trovare il modo di convincere gli altri a seguirti. Se invece non vorrai rispettare le regole DD, in pratica ti escluderai dal contesto sociale, anche se continuerai a conservare il diritto ad una vita dignitosa, che è il prezzo della nostra responsabilità sociale nei tuoi confronti.”
Sottoscrivendo questo contratto, su cui si fonda lo Stato DD, l’individuo accetta di comportarsi da cittadino democratico e di rispettare i diritti e i doveri vigenti presso la sua comunità.

18.2. Il contratto politico DR
La DR si è servita della teoria contrattualista per giustificare la monarchia assoluta (Hobbes) o la monarchia parlamentare (Locke) o la dittatura della non meglio definita Volontà Generale (Rousseau), il governo delle Leggi (Montesquieu) o il governo dei rappresentanti eletti, ma mai una vera e propria democrazia fondata sul riconoscimento effettivo della sovranità individuale e della libera partecipazione responsabile di ciascun cittadino alla stesura dell’ordine del giorno e alle decisioni di pubblico interesse.

18.2.1. Il contratto di Hobbes
“L’unico modo in cui gli uomini possono erigere un potere comune che sia in grado di difenderli dall’aggressione di stranieri e dai torti reciproci, e quindi di garantire una sicurezza tale che essi possano sostentarsi e viver bene grazie alla loro industria e ai frutti della terra, è quello di conferire tutto il loro potere e la loro forza ad un uomo o ad un’assemblea di uomini, che, a maggioranza di voti, possano ridurre tutte le loro volontà ad una volontà unica.... Questo è più del consenso o della concordia: si tratta di una unità reale di tutti loro in una sola e identica persona, costituita mediante il patto di ogni individuo con ciascuno degli altri; come se ognuno di essi avesse detto all’altro: io autorizzo, e cedo il mio diritto di governarmi a quest’uomo o a questa assemblea di uomini, a condizione che tu ceda a lui il tuo diritto, e autorizzi allo stesso modo tutte le sue azioni. Ciò fatto, la moltitudine così unita in un’unica persona è detta Stato” (Hobbes 1998: II, 17).

17. Informazione

Viviamo nell’era della globalizzazione, di internet e della televisione e siamo sommersi da informazioni di ogni tipo, che circolano da un capo all’altro del pianeta alla velocità della luce, un fenomeno talmente evidente e pervasivo che qualcuno ha visto in esso la «base» della nostra cultura (Dahrendorf 2005: 269). Sennonché, quando l’informazione assume l’aspetto di una valanga o di un ginepraio, diventa davvero arduo districarvisi e distinguere l’informazione produttiva e corretta da quella futile o fuorviante, e si corre il rischio di essere plagiati da imbonitori, demagoghi e ciarlatani, che, a vario titolo, potrebbero condurci là dove non vorremmo andare.
La qualità dell’i. cambia a seconda del sistema politico vigente, ma anche a seconda delle persone che la diffondono. Se è controllata da persone ambiziose e senza scrupoli, o da regimi autoritari, essa può perseguire l’effetto di ipnotizzare le masse e assoggettarle alla volontà dei potenti, se invece è aperta a tutti, essa può costituire un formidabile strumento di crescita personale e di democrazia. Il modo in cui l’i. viene gestita ci consente di distinguere non solo un regime autoritario da uno democratico, ma anche una democrazia da un’altra. Infatti, come osserva Stefano Rodotà, “Si può ben dire che il grado di democraticità di un sistema si misura anche in base alla quantità e alla qualità delle informazioni rilevanti che circolano al suo interno, e all’ampiezza della platea dei soggetti che ad esse possono accedere” (1997: 85). In definitiva, oggi l’i. può essere usata come una formidabile arma nel bene e nel male, potendo servire tanto alla crescita culturale di un popolo quanto per asservire le persone, come non era mai avvenuto in passato.
In questa sede cercherò di mettere in evidenza il diverso modo di intendere l’i. da parte della DD e della DR. Prima però è necessario precisare che cosa intendiamo per informazione.

A) La «conoscenza»
Diciamo subito che l’informazione è riconducibile sicuramente ad una qualche forma di conoscenza, ma non è un sinonimo di «conoscenza». Il termine «conoscenza» può essere usato in riferimento ad ogni idea (anche la più astratta e la meno verificabile) che matura nelle teste delle persone. Pensate a tre personaggi molto famosi: Mosè, Gesù di Nazaret e Maometto. Ciò che li accomuna è una «rivelazione» personale da parte di Dio, che si è tradotta nella nascita di tre religioni monoteistiche, che oggi dominano mezzo mondo. Pensate anche alla teoria «scientifica» del big bang, che spiega l'origine dell'universo. In entrambi i casi siamo di fronte ad idee non verificabili, che, pur appartenendo a due campi molto diversi (metafisico e scientifico), tuttavia possono essere ascritte a buon diritto nell'ambito della conoscenza «seria».
Ogni persona è raggiunta ogni giorno da infiniti stimoli sensoriali ed endogeni, che costituiscono le fonti primarie della nostra conoscenza, ma nessuno è in grado di conservare una memoria di tutti questi stimoli, se non in una minima parte. L’insieme poi di tutte le conoscenze di tutti gli individui di ogni tempo genera un altrettanto infinito patrimonio di dati che, anche in questo caso, nessuna mente umana potrà mai contenere. In pratica, solo le conoscenze che siano ritenute capaci di incidere in un qualsiasi modo (e in un tempo anche differito) nella vita di una qualche persona verranno ricordate; le altre verranno cancellate. Alcune di queste conoscenze andranno poi trasmesse, in forma orale o scritta, alle generazioni future, e andranno così a formare due immensi archivi di dati: la tradizione e la letteratura.
Possiamo distinguere molti tipi di conoscenza. Ne ricordo alcuni:
1. La conoscenza che deriva dalla fede, come quella che ha operato in Mosè, Gesù di Nazaret e Maometto. Di norma, essa è ritenuta certa e assoluta, benché non possa essere dimostrata.
2. La conoscenza empirica, che comprende tutti i fatti osservabili per mezzo dei sensi. Per esempio, se mi trovo davanti ad una ontagna e dico «Vedo una montagna», sto semplicemente comunicando a me stesso o ad altri una mia conoscenza immediata, che generalmente (anche se non sempre) è condivisa a livello universale.
3. La conoscenza razionale, che può essere di tipo deduttivo, quando procede per semplice ragionamento (ad es. nel campo della matematica), oppure di tipo induttivo, quando si elaborano idee universali partendo da dati empirici (ad es. nella statistica). Di norma, le verità che queste conoscenze esprimo sono considerate relativamente certe.
4. La conoscenza scientifica, che inerisce ai fatti documentabili e verificabili da chiunque. Secondo il pensiero laico, si tratta della migliore forma di conoscenza di cui l'uomo sia capace, ma anche le verità che essa esprime sono sempre relative.
5. La conoscenza per intuizione è quella che matura spontaneamente e repentinamente nella testa di una persona a partire dalle sue conoscenze pregresse. In genere, si tratta di idee nuove, tutte da dimostrare, che però possono rappresentare l'inizio di altre conoscenze.

B) Significato di «informazione»
La conoscenza diventa «informazione» solo quando venga trasmessa (per via orale o per iscritto) da una persona ad un'altra.
Chiamerò informazione propriamente detta (i.p.d.) la conoscenza che transita da un soggetto ad un altro in risposta ad una precisa richiesta di quest'ultimo. «Che ora è?» «Sono le 10.00». Ecco un tipico esempio di i.p.d.. La presenza di un soggetto richiedente lascia presumere l'esistenza di un sicuro interesse da parte dello stesso.
Supponete ora che un vostro amico vi racconti una sua baruffa col capufficio, o la sua ultima gita fuori porta, senza che voi glielo abbiate chiesto. In questo caso, parlerei di pseudo-informazione (p.i.) o informazione spuria (i.s.), perché manca la richiesta. A questo genere di informazione appartengono i film, i libri, i giornali e tutti quegli elementi di conoscenza che transitano da un soggetto ad un altro in assenza di una richiesta esplicita. L'orologio della piazza che scandisce le ore appartiene a questa tipologia di informazioni. L'assenza di un soggetto richiedente lascia presumere che la p.i. potrebbe essere accolta con indifferenza. Ma non è così. L'esperienza ci insegna, infatti, che delle persone possono provare interesse anche per informazioni che non hanno richiesto. È su questa base che diremo «quel film è stato un flop», oppure «questa è una rivista di successo».
Nell'indagare la psiche umana, le scienze pisicologiche hanno scoperto che gli uomini sono più sensibili a certe informazioni piuttosto che ad altre, a certi film, romanzi, giornali, riviste, discorsi, messaggi piuttosto che ad altri. Su queste basi si sono affermati certe figure di «professionisti» (giornalisti, registi, scrittori, ecc.), i quali si sono specializzati nell'arte di selezionare le informazioni da divulgare e nel modo di presentarle, con l'obiettivo di renderle gradevoli al cittadino medio. L'opera di questi professionisti è particolarmente apprezzata sia dai governi autoritari, che se ne possono servire per fare una propaganda politica incisiva, sia dai paesi a libero mercato, che se ne possono servire per incrementare il consumismo. Le informazioni scelte e confezionate ad arte dai professionisti del settore diventano notizie, ovvero merce vendibile. I cittadini non ne sono i richiedenti, ma semplicemente i consumatori.

C) Funzioni dell'informazione
Abbiamo affermato che ciò che caratterizza l'i. è la presenza di un soggetto richiedente sulla base di un qualche interesse personale. Così concepita, l'i. altro non è che una conoscenza selezionata sulla base della sua utilità. Secondo Baldassarre, essa è funzionale “per comprendere le cose e per potere agire consapevolmente” (2002: 122). In effetti, l’i. è sempre strumentale, altrimenti verrebbe respinta o si perderebbe nel dimenticatoio, dissolvendosi nel nulla. Potremmo dire che l’i. serve da guida le nostre azioni ed è anche un imprescindibile strumento di libertà e di partecipazione politica responsabile. Per questo essa è così importante per noi.
L'esistenza di un interesse può spiegare perché, di norma, le persone si mostrano più interessate alle i. che riguardano il loro presente, piuttosto che quelle che si riferiscono al passato o al futuro, e può spiegare anche perché le persone imparano a distinguere la bontà di un’i. sulla base dei risultati conseguiti. Le i. «buone» saranno quelle che aiutano la persona a prendere le migliori decisioni possibili e agire in modo benefico per sé e/o per altri. All’opposto, le i. «cattive» saranno quelle che arrecano del male a sé e/o ad altri.

D) Importanza dell'interpretazione
Solitamente le persone mostrano scarso interesse per i fatti nudi e crudi. Per es., il fatto che io veda una montagna davanto a me potrebbe dirmi poco, ma se vi aggiungo che sulle sue pendici c'è un centro turistico ricco di attrattive, la cosa potrebbe interessarmi. In pratica, un fatto nudo e crudo acquista interesse solo quando è corredato da altre informazioni (una spiegazione, un’interpretazione o un commento), tanto da indurre Nietzsche ad osservare che “non esistono fatti bensì soltanto interpretazioni” (in Fukuyama 1999: 104). Per tale ragione, da qui in avanti, userò il termine «informazione» col significato di «conoscenza integrata». Solo le conoscenze integrate suscitano l’interesse delle persone e le orientano all’azione.

E) Potere dell'informazione
È sufficientemente noto che “l’informazione possiede la capacità di influenzare e condizionare le convinzioni e i comportamenti dei cittadini, operando quindi con tutte le caratteristiche sostanziali di un potere” (Costanzo 2004: 9). Questo potere è gestito in modo diverso dai diversi regimi politici: nei regimi autoritari è gestito da élite, in quelli democratici da tutti i cittadini.

F) Il modello scientifico e la verità impossibile
Fra tutte le forme di conoscenza razionale la conoscenza scientifica è comunemente ritenuta quanto di meglio l’uomo sia finora stato in grado di produrre. Tuttavia, per quanto sia suffragata da prove riproducibili, nemmeno la scienza enuncia verità definitive e immutabili. Secondo Roberto Maiocchi, “La verità scientifica non è altro che l’insieme di soluzioni a problemi che in una data epoca sono condivise dalla maggioranza degli addetti ai lavori” (1995: 547). Detto in altri termini, “non esiste un modello di razionalità scientifica universalmente valido” (Maiocchi 1995: 548).
Dalla scienza, asserisce Popper, non ci dobbiamo aspettare la verità, come invece avviene nel campo della metafisica, ma semplicemente delle teorie che sono ritenute attendibili nella misura in cui dimostrano di saper resistere ai tentativi di confutazione. Per Popper, in ciò la scienza si distingue dalla metafisica, nel fatto che le sue asserzioni sono falsificabili: solo le teorie che possono essere confutate dall’esperienza appartengono alla scienza. Ne consegue che “il lavoro dello scienziato consiste nel produrre teorie e metterle alla prova” (Popper 1995: 9). Una teoria viene ritenuta plausibile fintantoché non venga confutata e si tenta di confutarla proprio perché si sa che essa non è certamente vera e perfetta.
C’è uno stretto connubio fra paradigma scientifico dominante e potere politico. “La scienza è indubbiamente uno strumento di governo, ma allo stesso tempo il governo e i suoi poteri sono in qualche modo costretti al suo servizio” (Mayor, Forti 1997: 50). Kuhn ha parlato di «paradigmi». Il paradigma “è ciò che viene condiviso da una comunità scientifica” in un dato momento (Kuhn 1995: 213). Come nasce un paradigma? “Ogni nuova interpretazione della natura, sia essa una scoperta o una teoria, sorge dapprima nella mente di un singolo o di pochi individui” (Kuhn 1995: 175). Il paradigma nasce quando quell’individuo o quei pochi individui riescano a suscitare consenso e a creare un movimento di pensiero alternativo alla cultura dominante. Ora, laddove un paradigma alternativo dovesse prevalere su quello dominante e soppiantarlo, in questo caso avremo un cambiamento e, talvolta, una vera e propria rivoluzione culturale. Kuhn vede nella storia della scienza un susseguirsi incessante di rivoluzioni, intendendo per tali “quegli episodi di sviluppo non cumulativi, nei quali un vecchio paradigma è sostituito, completamente o in parte, da uno nuovo incompatibile con quello” (1995: 118).
Secondo Kuhn, nessun paradigma è perfetto e nessuno è in grado di risolvere tutti i problemi. Inoltre, tra due o più possibili paradigmi alternativi, è impossibile stabilire quale sia il migliore in assoluto e, pertanto, si finisce con lo scegliere quello che riceve più consensi (Kuhn 1995: 122). Il consenso, poi, è legato al tipo di problema che si preferisce risolvere: “poiché nessun paradigma risolve mai tutti i problemi che esso definisce e poiché non succede mai che due paradigmi lascino irrisolti proprio gli stessi problemi, le discussioni sui paradigmi implicano sempre la questione: quali problemi è più importante risolvere?” (Kuhn 1995: 138). Ora, essendo la gerarchia dei problemi legata agli equilibri e ai rapporti di forza sociali del momento, ne consegue che il paradigma prescelto sarà, in qualche modo, un’emanazione del potere politico ed economico.
Nel 2010, a distanza di un secolo e mezzo da L'Origine delle specie, sono stati pubblicati due libri da parte di valenti scienziati: uno è Il più grande spettacolo della terra. Perché Darwin aveva ragione, di Richard Dawkins, l'altro Gli errori di Darwin, di Massimo Piattelli Palmarini e Jerry Fodor. Entrambi trattano del darwinismo e conducono le proprie argomentazioni alla luce delle più recenti conoscenze nel campo della genetica, dell'embriologia e delle scienze biomolecolari. Però giungono a conclusioni antitetiche: Dawkins afferma che Darwin aveva ragione, Piattelli Palmarini e Fodor sostengono invece che aveva torto, in particolare per quel che concerne la teoria della selezione naturale. Secondo questi ultimi autori, che si professano atei, la teoria della selezione naturale non solo non sarebbe verificabile, ma sarebbe probabilmente sbagliata, in altri termini, non ci sarebbe alcuna selezione, né da parte della Natura, né da parte di Dio, né da parte di alcun altro Ente capace di produrre effetti intenzionali.
Ora, se nemmeno la conoscenza scientifica, che è la migliore forma di conoscenza di cui l’uomo sia capace, produce verità assolute, ne deriva che la verità non appartiene all’uomo, e ciò varrà tanto più quanto più ci allontaniamo dalla scienza. Inutilmente, dunque, cercheremo la verità nella sfera del sociale, dell’etica, della morale e della religione, come anche della politica, di cui ci stiamo occupando.


17.1. Informazione e Democrazia Diretta
Abbiamo affermato sopra che solo le «buone i.» aiutano la persona a prendere le migliori decisioni possibili per sé e per gli altri e a comportarsi in modo autenticamente democratico, ovvero in modo libero e responsabile. Ma che cos’è una «buona i.»? Qualcuno potrà pensare che una buona i. dovrà essere «vera». Abbiamo visto che così non è. Non esiste la verità, nel senso che non esiste una conoscenza certa, preservata cioè dal rischio di essere prima o poi smentita da nuove acquisizioni. L’uomo non produce la verità, ma tante verità, tutte parziali, tutte diverse, e talune opposte. Più che verità è meglio chiamarle «opinioni». "Ma il fatto che non conosciamo «con certezza» non è un difetto; piuttosto, è una garanzia contro qualsiasi autorità che si arroghi un potere sulla scienza e contro il nostro stesso autocompiacimento" (Giorello 2010: 99).
Se noi affermiamo che la verità esiste e può essere conseguita dall'uomo rischiamo di non vedere mai sorgere una democrazia degna di questo nome, per le seguenti ragioni: 1) la verità chiude la discussione, che è l'anima della democrazia; 2) se la verità esiste, esisteranno anche persone che affermeranno di possederla e persone disposte a credervi (è così che si creano le sette), ma ci saranno anche persone che la penseranno diversamente e che creeranno altre sette, a volte l'una contro l'altra armata. Questo fenomeno è particolarmente evidente nelle religioni, ma è presente anche in politica; 3) quando ciascuno agita la propria verità come se fosse una bandiera, si creano i presupposti per l'affermazione di nazionalismi, barriere culturali, intolleranze e violenze; 4) la verità è invocata dalle religioni monoteiste e dai governi autocratici; 5) la verità non è invocata né dalla scienza né dalla democrazia; 6) la verità è la tomba della scienza, perché pone fine alla ricerca; 7) la verità porta all'immobilismo mentale.
Se noi invece affermiamo che la verità non esiste, in realtà affermiamo che: 1) nessuno (nemmeno Berlusconi, nemmeno il papa) possiede la verità; 2) nessuno è maestro per definizione; 3) tutti siamo maestri e allievi nello stesso tempo; 4) ciascuno deve usare il proprio cervello per cercare la propria verità e deve evitare di accettare per fede le «verità» di presunti maestri; 5) anche quelle che oggi ci sembrano verità somme un giorno potranno essere superate; 6) per questo i cittadini non devono mai cessare di metterle in discussione; 7) tutti siamo fallibili e, sotto questo aspetto, uguali.
In definitiva, dichiarare in modo chiaro è forte che nessuno possiede la verità non dev'essere inteso come un semplice esercizio filosofico, ma come un modo di difendere la democrazia, isolando per tempo l'affermazione di pericolose figure di capipopolo. Ebbene, se siamo consapevoli che la verità non esiste, e solo a questa condizione, ogniqualvolta qualcuno dovesse gridare «Ho scoperto la verità!», verrebbe subito isolato e messo nelle condizioni di non nuocere, come si conviene ad un nemico della democrazia. In democrazia, infatti, la verità appartiene a tutti i cittadini nel loro insieme e a nessuno in particolare.
Si tratta, in definitiva, di rovesciare gli attuali rapporti di forza fra i cittadini e di comprimere la «piramide» sociale, affermando il principio secondo il quale, dacché la verità non è posseduta da nessuno, non è giustificato che una minoranza di «esperti» decida dall'alto quali informazioni dare alle masse e come. Si tratta anche di aiutare i cittadini a prendere coscienza che i titolari dell'i. sono proprio loro, ciascuno di loro. I cittadini devono capire che sono essi la fonte primaria dell'i. e i fruitori ultimi dell'i. stessa, e devono anche capire che l’i. dovrebbe essere annoverata fra i servizi pubblici fondamentali, assieme all’acqua, alla corrente elettrica, all’istruzione e alla salute. Infine, essi devono capire che, se non vogliono alienare la loro titolarità sull'i., dovranno essere disposti a pagare interamente il costo relativo, tenendovi lontano l'imprenditoria privata, onde evitare che l'i. si riduca a merce, e i partiti politici, onde evitare che l'i. si riduca a propaganda.
In democrazia si incoraggiano le buone opinioni. «Buona» è l’i. plurima, ovvero l’i. che proviene dal maggior numero possibile di fonti, il che, tuttavia, continua a non essere di per sé garanzia di veridicità. È proprio perché non esiste la verità che dovrà essere data ad ogni persona la possibilità di formarsi la propria verità, partendo dalla consultazione di diverse fonti. La pluralità delle fonti è la premessa indispensabile affinché il cittadino comune possa formarsi una propria opinione personale ben fondata, di cui, come abbiamo detto, potrà valutare la bontà solo a posteriori, in rapporto alle conseguenze delle proprie scelte e delle proprie azioni. Solo la persona che costruisca da sé stessa le proprie opinioni dopo aver attinto a diverse fonti merita di essere considerata un «cittadino democratico», perché solo un siffatto cittadino sarà funzionale alla democrazia e tenderà a produrre regimi democratici.
Il cittadino democratico corrisponde alla figura dell'ateo, come viene descritta da Giulio Giorello in un suo recente libro. L'ateo di Giorello non è uno che si affanna a dimostrare che Dio non esiste, "Non va in cerca di una prova che Dio non c'è; anche se dovesse esistere il Signore del mondo, preferisce non mettersi al suo servizio" (2010: 192) e si lascia guidare principalmente dalla propria testa. L'ateo secondo Giorello è uno che tiene alla propria autonomia di pensiero e fa proprio il motto degli anarchici «né dio né padroni». "La forza dello spirito, per l'ateismo, non sta nel dimostrare che Dio non c'è, bensì nel rifiuto di riconoscerlo come un padrone" (Giorello 2010: 178). L'ateo "non ritiene che alcun valore sia così profondo da imporgli il sacrificio della propria autonomia o indipendenza di giudizio" (Giorello 2010: 146). L'ateo si oppone alle religioni nella misura in cui esse si definiscono portatrici di verità assolute, che poi tentano di imporre e alle quali esigono accettazione incondizionata. L'ateo è uno che "decide il corso delle proprie azioni, che soppesa l'utilità che si aspetta dalle sue scelte alla luce delle opinioni che si è liberamente formato su come va il mondo" (Giorello 2010: 182).
Il cittadino democratico sa che “gli unici – o perlomeno i principali – produttori di ricchezza sono l’informazione e la conoscenza” (Drucker 1993: 199) e fa proprie le seguenti parole di Kahlil Gibran: “La vera ricchezza di una nazione non è nel suo oro e argento, ma nel sapere, nella saggezza e nella rettitudine dei suoi figli” (1992: 64). Il cittadino democratico sa bene che la democrazia non può attecchire dove non c’è istruzione e informazione plurale e perciò si aspetta che un governo democratico investa molto in questi settori. Da parte sua, se non vuole affossare la democrazia, un governo ha tutto l’interesse di assicurare “concretamente la disponibilità di una «massa critica» di informazioni che permetta di dare ai cittadini voce e potere” (Rodotà 1999: 47).
Il cittadino democratico sa anche che “le grandi idee nascono talora fuori dalle solenni aule delle accademie scientifiche, nei posti più diversi e distanti dai laboratori universitari” (Di Trocchio 1997: 108). Egli perciò si oppone ad ogni monopolio della conoscenza e non si limita a prendere in considerazione le opinioni dei professionisti, ma ascolta anche le persone meno blasonate allo scopo di tesaurizzare al massimo il capitale umano, perché è convinto che un capitale umano portato ai massimi livelli porterà vantaggi per tutti.
In democrazia vale il principio che tutto deve girare intorno al cittadino. Il cittadino è la fonte primaria dell'i. e insieme il destinatario ultimo. Pertanto, non dovrebbero esistere giornalisti di professione, ma dovrebbe essere riconosciuto a tutti il diritto di rendere pubbliche le proprie idee e di diffondere informazioni di cui si sia in possesso, nel rispetto di norme etiche prestabilite e valide per tutti, le più importanti delle quali sono quelle di non arrecare danno ad alcuno e non dichiarare il falso per secondi fini o per semplice millanteria. Responsabili degli articoli dovrebbero essere gli autori medesimi, e non il direttore, il quale non dovrebbe essere insediato sulla sua poltrona dai vertici politici o economici del paese, ma per votazione dal basso, oppure per sorteggio o per titoli, e il suo compito dovrebbe essere quello di amministrare le risorse economiche e umane del suo giornale, oltre che far rispettare la deontologia professionale e le norme condivise.
Tra i numerosi strumenti dell’i. (dalla carta stampata alla radio, dalla televisione alla telematica), per via dei bassi costi e della facile accessibilità, Internet s’impone come il più democratico ed apre interessanti prospettive per l’attuazione della democrazia partecipativa. Esso pertanto dovrebbe essere adeguatamente sostenuto e potenziato.
In un paese veramente democratico, l’i. a pioggia dovrebbe essere bandita e ai cittadini dovrebbe essere offerto da tutte le Agenzie preposte un servizio di i., che fornisca risposte puntuali e articolate a tutte le possibili richieste. È lecito presumere che un governo democratico stanzierà un 2% del gettito tributario per finanziare le Agenzie di i. pubbliche e varerà leggi atte a rendere accessibile l’i. anche alle persone meno abbienti, un po’ come si fa attualmente coi servizi sanitari o scolastici. Lo scopo ultimo non è quello di decidere dall'alto quali informazioni dare ai cittadini, ma dare a questi esattamente le informazioni che essi desiderano. In democrazia, quello che conta non dovrebbe essere l'interesse del partito o dell'azienda, ma gli interessi di ciascun individuo, che "devono essere definiti nei termini delle sue proprie preferenze personali e non nei termini di ciò che qualcun altro pensa sia bene per lui" (Giorello 2010: 153).
In democrazia l’informazione dovrebbe essere libera e indipendente da ogni potere e quindi dovrebbe essere, almeno entro certi limiti, interamente pagata dai cittadini che vi accedono. Ne consegue che, almeno nell'informazione di base e in quella su domanda (vedi oltre), la pubblicità commerciale dovrebbe essere bandita. Qualcuno dirà che anche la pubblicità è una forma di informazione. Sì, ma è un'informazione interessata, non richiesta, che induce il cittadino a consumare per consumare, ha un costo che alla fine paga il cittadino, non è democratica perché cade dall'alto e non prevede discussione, è diseducativa perché si rivolge alla sfera emotiva (e non a quella razionale) delle persone, che vengono così disabituate a ragionare.
In democrazia, è il caso di ripeterlo, l’i. dovrebbe essere annoverata fra i servizi pubblici fondamentali, assieme all’acqua, alla corrente elettrica, all’istruzione e alla salute, e, come questi, pagata coi soldi dei contribuenti e dei cittadini. Concretamente, immagino un Servizio Pubblico per l'Informazione congegnato nel rispetto dei seguenti princìpi.
1. Tutti i cittadini possono esprimere opinioni, attenendosi a norme universalmente condivise, così come avviene nel mondo scientifico.
2. I cosiddetti professionisti dell'i. dovrebbero svolgere solo funzioni ausiliarie. In pratica, essi dovrebbero limitarsi a raccogliere, catalogare e archiviare le i. che vengono dai cittadini, per poi redistribuirle secondo la domanda. Essi potrebbero essere scelti per sorteggio da una rosa di candidati provvisti di adeguate competenze e restare in carica per un tempo prestabilito. Ovviamente, anche i professionisti potranno esprimere le proprie opinioni, ma solo in qualità di cittadini.
3. I suddetti professionisti selezionano le informazioni dei cittadini da essi ritenute di interesse più generale e le pubblicano sui media col nome dei cittadini estensori. Sul piano della carta stampata potrebbe essere sufficiente un foglio in doppio, in cui si riportano le informazioni essenziali, insieme ai rimandi per eventuali approfondimenti. La chiamiamo Informazione di base. Essa è decisa dall'«alto». La pubblicità vi è bandita. L'informazione di base è un servizio pubblico (come la scuola, la sanità, ecc.) e dev'essere pagato coi soldi pubblici: sovvenzionarla coi soldi dei privati o coi proventi della pubblicità sarebbe come trasformare gli ospedali in cliniche private o come tappezzare le aule scolastiche con le reclame delle merendine.
4. Gli stessi professionisti rispondono a tutti i cittadini che facciano richiesta di informazioni particolari, attingendo alla stessa banca dati. Il principio è che l'informazione deve presupporre una richiesta dal «basso»; solo così potrà risultare evidente il suo carattere strumentale (l'informazione deve servire a qualcosa). Se io ti chiedo «che ora è?» oppure «dove si trova la stazione dei treni?», evidentemente ho una qualche ragione per farlo. Parleremo di Informazione a domanda. Essa è decisa dal «basso». Anche qui la pubblicità è bandita.
5. Dovrebbe essere anche consentita un'Informazione libera, libera cioè di stabilire i contenuti e le forme editoriali, ma anche di servirsi della pubblicità commerciale. Essa non sarà sovvenzionata dallo Stato. In questa sede le aziende potranno fornire informazioni imparziali sui loro prodotti, di cui si assumono la responsabilità.
6. Non dovrebbero essere previsti organi superiori di controllo: sono gli stessi cittadini e le stesse Agenzie che si controllano gli uni gli altri. Chi racconta frottole, il mitomane e il millantatore viene di norma isolato dalla comunità dei cittadini corretti e messo spontaneamente nella condizione di non nuocere. Tuttavia, lo Stato si riserva di punire la propalazione di i. intenzionalmente false e tendenziose, con sanzioni pecuniarie e, in casi particolarmente gravi, con la chiusura dell’Agenzia o con l’interdizione dei cittadini responsabili.

17.1.1. Il relativismo democratico
Chiunque possieda, o ritenga di possedere, una verità assoluta è da ritenersi un pericolo per la democrazia. Costui, infatti, non solo non accetterà di documentarsi e confrontarsi, ma cercherà di imporre la sua verità con tutti i mezzi possibili, anche con la forza. La verità assoluta si oppone al dialogo e alla tolleranza, alla crescita culturale e alla ricerca, alla democrazia e alla pace, erige barriere fra gli uomini e conduce a posizioni fondamentaliste e intransigenti. La maggior parte delle persone che non sente il bisogno di leggere e informarsi, lo fa perché presume di possedere verità assolute. Apparentemente è gente tranquilla, quasi felice, ma in realtà è un pericolo per il progresso e la democrazia. Sotto questo aspetto e nella misura in cui affermano di possedere la verità, anche le religioni monoteiste costituiscono un problema per la democrazia. In effetti, la democrazia è divenuta possibile da quando l’illuminismo ha rigettato ogni pretesa di assolutismo e ha affermato che l’uomo si muove nella sfera dell’opinabile.
Da quella volta un numero crescente di persone è consapevole che “l’essenza delle cose ci sfugge e ci sfuggirà sempre, noi ci muoviamo nel relativo, l’assoluto non è in poter nostro” (Bergson 1971: 145). Oggi sono in molti a credere che “Non esistono fondamenti (certezze, valori assoluti, fini essenziali) nella vita degli uomini; ogni presunto «immutabile» si rivela contingente, ogni progettualità illusoria” (Volpe 2000: 259). Oggi molti sono anche propensi a credere che “L’educazione deve mostrare che non esiste conoscenza che non sia in qualche misura minacciata dall’errore e dall’illusione” (Morin 2001: 17). In democrazia dovrà valere il principio secondo il quale il “«pluralismo teorico» è meglio del «monismo teorico»” (Lakatos 1996: 77).
In democrazia, ogni individuo è un «assoluto» in sé, ma è un «relativo» nei confronti di ogni altro; ciò che uno pensa per sé è un assoluto, ma, nel momento in cui il pensiero di uno venga rivolto ad altri, esso diventa una semplice opinione. L’opinione non solo non è da disprezzare, ma rappresenta l’unico modo serio di giungere a verità relative da parte dell’uomo.
Secondo il pensiero democratico, infatti, “nessuna autorità umana può stabilire la verità mediante un decreto” (Popper 2000: 92) e “tutto ciò che è assoluto appartiene alla patologia” (Nietzsche, in Crespi 2008: 30). In effetti, la verità non è mai data una volta per sempre, ma è in perenne divenire. Tutto è opinione e merita il medesimo rispetto, anche se ciò non impedisce a ciascuno di costruirsi la propria scaletta di verità e di crearsi le proprie certezze, che potrà poi sostenere nei termini e nei modi che riterrà più opportuni, sempre, beninteso, nel rispetto delle regole democratiche. “Perciò il relativismo è quella concezione del mondo che l’idea democratica suppone” (Kelsen 1995: 149).
In sostanza, la democrazia è il regno della ricerca continua, non del dogma, del laicismo, non della religione, del dubbio, non della certezza. “Democrazia e verità assoluta, democrazia e dogma, sono incompatibili” (Zagrebelsky 2007: 16), perché “la democrazia […] è necessariamente relativistica” (Zagrebelsky 2008: 88).
Poiché mi rendo conto che le suddette affermazioni potrebbero sembrare troppo forti, ritengo sia il caso di soffermarmi ancora un momento sulla questione, prendendo spunto da un interessante lavoro di Giovanni Jervis, dal titolo eloquente Contro il relativismo (2005), dove l’autore attacca il relativismo a 360 gradi. Certo, il libro di Jervis meriterebbe un altro libro in risposta, ma in questa sede posso solo dedicargli poche righe. Prendo due critiche a caso: “Il relativista non crede nella scienza” (p. 43); “il relativismo diffida della razionalità umana” e non fa distinzione fra una verità e l’altra (p. 47). Da queste affermazioni risulta evidente che Jervis ha un’idea singolare di relativismo e devo confessare che anch’io sarei antirelativista se credessi che il relativismo fosse contrario all'indagine scientifica e rifiutasse di prendere posizione nei confronti di due verità alternative. Il mio relativismo invece ama la scienza, crede nel progresso scientifico, esalta la ragione umana, sa ben distinguere le cose migliori da quelle peggiori ed è anche perfettamente in grado di comprendere che la conoscenza è meglio dell’ignoranza, la tecnologia moderna meglio di quella dell’età della pietra, la democrazia meglio del dispotismo, e così via.
Occorre innanzitutto ricordare che "Relativismo non si oppone a verità, ma ad assolutismo" (Giorello 2010: 127). Va inoltre notato che “Il relativismo [...] è anch’esso relativo” (Bobbio 1992: 10) e, come tutte le altre verità relative, non è applicabile in tutti i campi allo stesso modo. Infatti, altro è parlare del mondo fisico e matematico, altro è parlare del mondo morale, religioso o politico: il relativismo è minimo nel primo caso, massimo nel secondo. Dire che l’Italia è più grande della Svizzera, che la terra è sferica o che tre è maggiore di due sono verità incontrovertibili, che nessuna persona nel pieno possesso delle proprie facoltà oserebbe mettere in dubbio, ma è ben difficile cercare la verità in questioni come l’aborto, l’eutanasia o la stessa democrazia. Come ha osservato Diego Marconi, “È certo ragionevole diffidare di chi avanza pretese di verità in campo etico e religioso, perché in questi ambiti sono poche le opinioni le cui giustificazioni siano più o meno unanimemente riconosciute come solide. Ma non c’è ragione di intendere la diffidenza alla verità in generale, o al concetto di verità” (2007: 157). Insomma, per quanto la nostra posizione sia relativistica, non c’è alcuna ragione di sostenere un relativismo assoluto.
È vero, spiega Salvatore Veca, “Le teorie a nostra disposizione non sono le migliori possibili, se – come dire – considerate indipendentemente dal tempo. Ma, entro un contesto opportunamente circoscritto, lo sono. È solo usandole adottandone e applicandone le regole, che possiamo sperare di costruirne di migliori e di più profonde. Non butteremo mai a mare una teoria, sino a che non ne avremo una migliore” (1982: 37). Relativismo significa allora semplicemente “essere consapevoli che siamo in costante ricerca della verità” e che “nessuno può pretendere di possedere la verità” (Crespi 2008: 19). La specificità del relativismo è, dunque, quella di non fissare limiti pregiudiziali al processo della conoscenza e di ritenere che la verità assoluta non è una prerogativa umana.
Insomma, come osserva Edoardo Boncinelli, “essere relativisti non vuol dire avere valori, tutt’altro! Vuol dire avere valori che si è disposti a mettere in discussione” (2009: 141). Relativismo non significa mettere tutto sullo stesso piano, ma significa soprattutto astenersi dal giudicare e condannare gli altri col pretesto che si stanno allontanando dalla verità (la nostra verità), in realtà semplicemente per il fatto che non la pensano come noi. Relativismo significa inoltre continuare a credere che, nonostante tutto, anche nelle concezioni apparentemente più assurde, può esserci almeno un briciolo di verità. Detto in altri termini, il relativismo afferma semplicemente che non possiamo mettere punti fermi a nessuna delle nostre teorie scientifiche e a nessuno dei nostri enunciati razionali, che non c’è alcun capolinea, che siamo esseri imperfetti e il nostro destino è quello di essere sempre in cammino.
Ha ragione, dunque, Raymond Boudon a distinguere un relativismo buono e uno cattivo: “Il buono ci permette di comprendere l’Altro. Il «cattivo» mette tutti i comportamenti, tutti gli stati di cose e tutti i valori sul medesimo piano” (2009: 47). Mi piace concludere con le illuminate parole di Franco Crespi: “Il relativismo, se inteso correttamente, appare non solo la condizione irrinunciabile della vita democratica, ma anche la maniera più realistica di affrontare le questioni morali e di giustizia che si presentano nella vita politica e sociale” (2008: 20).


17.2. Informazione e Democrazia Rappresentativa
Anche nei paesi a regime DR non mancano proclamazioni di principio a favore della piena libertà di trasmettere informazioni plurali e corrette. Ci aspetteremmo allora di trovarvi “le condizioni che rendano effettiva una realtà informativa libera e democratica” (Costanzo 2004: 8). E invece l’esperienza ci insegna che, il più delle volte, non si mette in pratica di ciò che si declama a parole.
Oggi, nelle nostre società DR, osserviamo uno strano fenomeno. A giudicare dall’enorme numero di pubblicazioni (non solo cartacee), di servizi televisivi e radiofonici, corsi, conferenze, incontri, dibattiti di ogni tipo, dovremmo ammettere, senza ombra di dubbio, che l’informazione è sicuramente plurale. Tuttavia, nonostante che i governi tendano a far credere che ciascuno di noi sia libero di diffondere e ricevere informazioni, la realtà è ben diversa. la realtà è che “Il governo tratta l’informazione che ha come se fosse qualcosa di sua proprietà, e non invece un patrimonio della collettività” (Stiglitz 2001: 18). In effetti, il grosso dell’i. è gestito dalla «casta» dei giornalisti e da coloro che controllano i giornalisti, ossia da poche persone appartenenti al mondo politico, imprenditoriale e finanziario.
Nei paesi a regime DR pressoché tutte le principali fonti di informazione sono controllate da gruppi di potere, pubblici e privati, e i contenuti dell'i. vengono decisi dall'alto e distribuiti a pioggia su cittadini distratti allo scopo di tenerne vivo l'interesse e di indurli a consumare. Il fatto che non sempre i cittadini dispongono delle necessarie risorse economiche per accedere a informazioni alternative, oltre che del tempo e delle necessarie capacità critiche per fruirne, interessa poco o punto. L’informazione viene trattata alla stessa stregua di un prodotto commerciale e secondo una logica di mercato e, di conseguenza, quello che conta non è la correttezza di ciò che si racconta, ma la sua vendibilità.
Così stando le cose, sembra del tutto naturale accompagnare l'informazione con inserzioni di pura pubblicità commerciale. In fondo, la logica è la stessa: suscitare nel cittadino il desiderio di consumare. Che poi venga consumata la «notizia» o il prodotto dell'industria o della finanza o determinati servizi poco importa. L’esigenza dominante è quella di coprire i costi e possibilmente di fare profitti, e tutto ciò dando al cittadino l'illusione di fornirgli un servizio essenziale di cui egli fruisce in piena libertà. In effetti, proprio in quanto servizio pubblico, l'informazione è sovvenzionata dallo Stato, con contributi che coprono circa 1/3 del costo totale (un altro terzo è coperto dai proventi della pubblicità, il terzo rimanente dai cittadini che acquistano l’«informazione»).
Tre sono, dunque, i «padroni» dell'informazione: 1) lo Stato, ovvero la classe politica dominante, 2) il Mercato, ovvero l'industria, la finanza e i servizi, e 3) i Cittadini, ovvero i consumatori. Ciascuno di questi padroni esercita determinati poteri: lo Stato ha il potere di fare le leggi e di decidere il carico fiscale e la distribuzione delle risorse pubbliche; il Mercato ha il potere di produrre ricchezza e posti di lavoro; i Cittadini hanno il potere di decidere se acquistare questo o quel prodotto. È del tutto evidente che la parte più debole è costituita proprio dai cittadini, che possono solo decidere se premiare questo o quel partito politico, questa o quell'azienda, questo o quello strumento di informazione, ma non possono in alcun modo modificare le regole del gioco. I cittadini possono solo scegliere fra i tanti prodotti che offre loro lo Stato e il Mercato, ma non possono decidere né in merito alle leggi da promulgare, né in merito a quali prodotti immettere nel mercato.
Il sistema dell'informazione non è dunque controllato dai cittadini, se non in forma indiretta e in misura marginale. Chi controlla l'informazione è lo Stato e il Mercato, i quali si servono di una ristretta classe di «professionisti» per far sì che i cittadini siano disposti a spendere di tasca propria per acquistare notizie che non hanno chiesto e prodotti vari di cui spesso non avvertono il bisogno. Ebbene, proprio a causa di esigenze della politica e del mercato, nessuna Agenzia di informazione e nessun giornalista sono del tutto liberi di scegliere le notizie da pubblicare e i commenti da fare, perché devono rendere conto ai loro padroni.
Il 20 maggio 2000 ho partecipato al convegno «Etica dell’informazione in sanità», che si è tenuto ad Udine, e ho trovato particolarmente interessanti gli interventi di due giornalisti, la dott. Alessandra Beltrame e il dott. Piero Villotta. La prima ha ricordato le forti pressioni cui è sottoposto il giornalista da parte delle aziende commerciali che pubblicano regolarmente sul suo giornale le loro inserzioni pubblicitarie, oltre che dei partiti politici e degli azionisti del giornale. Il dott. Villotta ha aggiunto che l’informazione seria costa e oggi, ha osservato, pochi sono disposti a pagare per essere informati. Il risultato ultimo è che le notizie pubblicate sono quasi sempre faziose e difendono o promuovono interessi di parte. Ora, se i media sono strumenti nelle mani dei potenti, i quali si limitano a fornire “ciò che massimizza i profitti” (Thurow 1997: 93), e se i cittadini sono trattati come semplici consumatori, e non come protagonisti politici, la conseguenza è che l’informazione non può essere seria.
A differenza dei sistemi politici democratico-diretti, dove si tende ad organizzare sistemi informativi orizzontali, che mettano al centro il cittadino, in qualità di produttore e destinatario della conoscenza, nei paesi a regime rappresentativo, il sistema informativo è a struttura piramidale. Al vertice troviamo gli organismi politici (parlamento, governo, partiti), che esercitano la loro influenza attraverso il potere legislativo, e gli organismi del mondo finanziario e produttivo, che esercitano la loro influenza attraverso il potere economico. A livelli inferiori troviamo i direttori dei giornali e i giornalisti. I cittadini comuni vengono esclusi dai giochi che contano e, col pretesto che sono dilettanti, vengono trattati come semplici consumatori. Alla fine, “non c’è spazio per i dilettanti, per quanto geniali essi possano essere. Soprattutto se battono strade fortemente innovative e quindi anomale e dissonanti rispetto alle idee dominanti. Il dilettante geniale viene rifiutato ed espulso da un corpo estraneo, e di lui e delle sue idee si perde perfino il ricordo” (Di Trocchio 1997: 109). Così, in nome di un ordine gerarchico che è definito imprescindibile per il buon funzionamento della società, si sprecano preziose risorse umane e si chiudono le porte alla democrazia.
Circolano moltissime informazioni, è vero, ma sono quasi sempre faziose e, per di più, si rivolgono a cittadini che spesso non hanno gli strumenti culturali necessari per orientarsi. Non essendo educati ad usare la propria testa, a confrontare informazioni diverse e ad elaborare sintesi personali, ed essendo invece abituati ai brevi e incisivi messaggi di tipo commerciale o propagandistico della televisione e dei giornali, questi cittadini sono piuttosto indotti all’omologazione e al conformismo e non crescono. Benché divengano adulti nell’aspetto e nell’età, di fronte al fiume di messaggi contrastanti che rischia di travolgerli, spesso i cittadini comuni finiscono col ritrarsi impauriti, mettendosi al seguito di un leader o cercando il conforto di una qualche comunità, una confraternita, una setta, un partito, una chiesa, dove si sentono protetti e al sicuro. Alla fine, senza l’autonomia di pensiero delle persone, l’informazione si riduce a mero strumento di potere e il cittadino diventa suddito.
Che l’i. sia uno strumento di potere è provato dal fatto che capita di rado che il direttore di un giornale venga perseguito dalla giustizia o sia sottoposto ad una qualche sanzione per avere pubblicato notizie false o tendenziose. Eccone un esempio. Sfogliando la rivista Panorama (non ricordo il numero preciso, ma doveva collocarsi tra aprile e maggio del 2000) rimasi colpito da due pagine di pubblicità. Nella prima (p. 82) Infostrada presentava una tabella, nella quale, cifre alla mano, dimostrava la convenienza delle proprie tariffe nei confronti di altre aziende, tra cui Tele 2. Nella seconda (p. 92) era Tele 2 che presentava la sua tabella e le sue cifre, che però dimostravano esattamente il contrario, e cioè la maggiore economicità di Tele 2 nei confronti di Infostrada. È del tutto evidente che almeno una delle due informazioni era falsa. Ora, se una rivista può pubblicare falsità in ambito matematico, che sono facili da smascherare, chi può assicurare il lettore che la stessa rivista non contenga altre falsità in ambito concettuale, che sono più difficili da individuare e quindi più insidiose? Se è possibile manipolare i numeri, figuriamoci i concetti! In ogni caso, fatte salve le consuete eccezioni, così come il direttore di Panorama non è stato chiamato a rispondere della falsità delle cifre pubblicate sul suo giornale, a maggior ragione egli non è stato chiamato a rendere conto sulle idee. E quello che vale per Panorama vale anche per tutti gli altri mezzi di informazione di massa, compresa la televisione. Ora, se l’obiettivo dei giornali fosse quello di dare informazioni corrette al cittadino, i direttori dovrebbero temere tutte le volta che nei loro giornali vengano pubblicate notizie di cui un qualsiasi cittadini potrebbe provare la falsità. E invece ciò non accade e si ha l'impressione che i direttori dei giornali possano contare sulla compiacente complicità dei poteri forti, come se ne facessero parte o ne fossero strumenti.
In ultima analisi, il cittadino paga il costo delle riviste e del canone tv, ma senza avere in cambio alcuna garanzia sulla correttezza delle informazioni che gli vengono fornite. Perché allora deve pagare? Nell’estate 2000 Tiscali.net faceva una pubblicità rivoluzionaria, che diceva: “hai avuto internet gratis – hai avuto internet più che gratis – adesso cosa vuoi, il costo della telefonata? Okay”. Il messaggio di Tiscali era chiaro: se tu, cittadino, accetti di essere raggiunto da informazioni interessate, io in cambio ti offro gratis il «servizio». Bene, perché questa logica, che vale per la telefonia, non dovrebbe valere anche nel caso delle riviste e della Tv, visto che anch’esse forniscono informazioni interessate? Ma, a questo punto, che senso avrebbe informarsi?


Bibliografia
Baldassarre A., Lo Stato e il cittadino. Quali diritti? Quali valori?, Spirali, Milano 2002.
Bergson H., Il riso; L’evoluzione creatrice; Le due fonti della morale e della religione, UTET, Torino 1971.
Boncinelli E., Giorello G., Lo scimmione intelligente, Rizzoli, Milano 2009.
Boudon R., Il relativismo, Il Mulino, Bologna 2009 [2008].
Costanzo P., L’informazione, Laterza, Roma-Bari 2004.
Crespi F., Contro l’aldilà. Per una nuova cultura laica, Il Mulino, Bologna 2008.
Dahrendorf R., La società riaperta, Laterza, Roma-Bari 2005 [2004].
Dawkins R., Il più grande spettacolo della terra. Perché Darwin aveva ragione, Mondadori, Milano 2010 [2009].
Di Trocchio F., Il genio incompreso, Mondadori, Milano 1997.
Drucker P.F., La società post-capitalistica, Sperling Kupfer, Milano 1993.
Fukuyama F., La grande distruzione. La natura umana e la ricostruzione di un nuovo ordine sociale, Baldini & Castoldi, Milano 1999.
Gibran K., La Voce del Maestro, Newton Compton, Roma 1992.
Giorello G., Senza Dio. Del buon uso dell'ateismo, Longanesi, Milano 2010.
Jervis G., Contro il relativismo, Laterza, Roma-Bari 2005.
Kelsen H., La Democrazia, Il Mulino, Bologna 1995.
Kuhn T.S., La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1995 [1970].
Lakatos I., La metodologia dei programmi di ricerca scientifica, Il Saggiatore, Milano 1996 [1978].
Marconi D., Per la verità. Relativismo e filosofia, Einaudi, Torino 2007.
Mayor F., Forti A., Scienza e potere, Sperling & Kupfer, Milano 1997 [1995].
Morin E., I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Cortina, Milano 2001 [1999].
Piattelli Palmarini M., Fodor J., Gli errori di Darwin, Feltrinelli, Milano 2010.
Popper K.R., Le fonti della conoscenza e dell’ignoranza, Il Mulino, Bologna 2000 [1969].
Popper K.R., Logica della scoperta scientifica, Einaudi, Torino 1995 [1968].
Rodotà S., Repertorio di fine secolo, Laterza, Roma-Bari 19992.
Rodotà S., Tecnopolitica, Laterza, Roma-Bari 1997.
Stiglitz J.E., In un mondo imperfetto. Mercato e democrazia nell’era della globalizzazione, Donzelli, Roma 2001.
Thurow L.C., Il futuro del capitalismo, Mondadori, Milano 1997 [1996].
Veca S., La società giusta, Il Saggiatore, Milano 1982.
Volpe G., Il costituzionalismo del Novecento, Laterza, Roma-Bari 2000.
Zagrebelsky G., Contro l’etica della verità, Laterza, Roma-Bari 2008.
Zagrebelsky G., Imparare democrazia, Einaudi, Torino 2007.

16. La religione

In un libro sulla democrazia politica non poteva mancare un adeguato cenno sulla r., per la semplice ragione che la r. condiziona sia la politica che la democrazia, soprattutto quando si tratta di una r. istituzionalizzata e strutturata gerarchicamente, come la r. ebraico-cristiana, di cui mi occuperò in questa sede, dando per scontato, anche se non dimostrato, che quanto dirò può essere applicato ad ogni altra religione gerarchizzata.

16.1. Significato e funzioni della religione
Cominciamo col chiederci che cos’è e a che cosa serve la religione? Il fenomeno religioso si affaccia nella storia dell’uomo in epoche molto remote, verosimilmente nel paleolitico, e origina da alcuni tratti psicologici dell’ominide, come l’ignoranza, la paura e il bisogno di certezze. L’ominide non sa perché la montagna sputa fuoco, perché la terra trema, perché esistono le malattie e la morte, però ne ha paura e avverte il bisogno di sapere o essere rassicurato. Un giorno qualcuno gli spiega che dietro a questi fenomeni c’è uno spirito potente e terribile che, quando è in collera, diventa distruttivo, ma che può essere placato con opportuni riti e sacrifici. Quel giorno nasce la religione, che però è sostanzialmente di tipo antropomorfo e magico.
Il termine «magia» verrà coniato, molti millenni dopo la sua comparsa, dai greci, che lo usavano per designare le pratiche cultuali che i sacerdoti persiani (detti «magi») utilizzavano in funzione divinatoria e guaritoria, ma anche come vera e propria arte fattucchiera, ossia attribuendo potere taumaturgico a parole, gesti e oggetti inanimati. Queste pratiche verranno poi condannate, prima dai romani, che le reputarono irrazionali e vacue, e poi dai cristiani, che vedevano in esse un’opera demoniaca e a cui contrapponevano la «religione», ossia la fede in Dio, un essere spirituale e personale, creatore e padre amorevole.
“Le azioni che si presentano come religiose o magiche – scrive Weber – debbono venir compiute «affinché tutto ti vada bene e tu viva a lungo sulla terra»” (1999: II, p. 105). Sia la religione che la magia aiutano l’uomo a soddisfare alcuni suoi bisogni, e lo fanno servendosi di appositi mediatori: i sacerdoti e gli stregoni. I primi influenzano gli dèi per mezzo della venerazione e della preghiera ritualizzate, i secondi agiscono sui demoni per mezzo di riti magici. Il risultato è lo stesso: allontanare il male o attirare il bene. Pur essendo diverse sul piano ideologico, magia e religione hanno in comune alcune proprietà funzionali, come quella di spiegare il male, fornire conoscenze certe, fissare valori immutabili, rassicurare e tenere sempre viva la speranza, e possono tranquillamente convivere nella stessa persona. E infatti, la magia non è scomparsa con l’affermazione della r., ma continua a svolgere un ruolo variabile. Secondo Vittorio Messori, essa tende a riapparire laddove la r. declina: “dove Dio muore, rispunta la paura del diavolo; dove il prete batte in ritirata, riecco lo stregone; dove la fede scompare, irrompe la superstizione. È una lezione costante della storia” (1993: 61).
La r. non spiega la realtà col metodo razionale-scientifico, che è faticoso, richiede impegno e suscita dubbi, ma in modo irrazionale-emotivo, che è alla portata di tutti e genera solo certezze (funzione conoscitiva), dà la sensazione di poter controllare la natura (funzione di potenza), esorcizza la paura (funzione rassicurante), consola gli afflitti e dà anche ai soggetti più deboli e sfortunati una speranza di giustizia (funzione di speranza), induce al rispetto dei codici morali imposti dall’autorità politica in virtù del timore del dio (funzione etica), alimenta la fiducia in se stessi, grazie alla consapevolezza di essere protetti da un dio (funzione psicologica), favorisce la coesione sociale e la coscienza di essere tutti figli dello stesso dio e membri dello stesso popolo (funzione sociale), conferisce un particolare status a colui che fa da intermediario fra il dio e l’uomo (funzione gerarchica), dando così origine alla stratificazione sociale a al potere (funzione politico-paternalistica).
La r. è inoltre in grado di giustificare ogni sorta di evento, privato o pubblico, senza la necessità di dover fornire delle prove: l’ingiustizia, la violenza, la sfortuna e ogni altro fenomeno socialmente rilevante, anche il delitto più efferato e incomprensibile, trovano adeguata spiegazione in un quadro fatto di perdoni, disegni, promesse, redenzioni, riscatti, espiazioni, immortalità e giustizia finale, che, sapientemente armonizzati dai sacerdoti, sortiscono sorprendenti effetti sui sentimenti delle persone, motivandole all’azione o alla quiete. Si potrebbe continuare all’infinito, ma tutte queste funzioni cesserebbero o perderebbero di efficacia se non ci fosse la convinzione che le verità in ambito religioso siano, per definizione, più vere di altre.
La funzione religiosa di maggiore importanza per il nostro discorso politico è proprio quella di offrire risposte certe a tutto, sgombrando il campo dal dubbio e creando una piattaforma di presunte certezze incrollabili, che danno alla persona la sensazione di poter dominare la realtà senza ricorrere a mezzi umani. L’uomo religioso si comporta come se sapesse tutto, anche quando non sa niente, ed è in virtù delle sue presunte certezze inossidabili che egli non avverte il bisogno di impegnarsi nello studio e nella ricerca, ma affronta con serenità ogni problema e si scaglia contro qualsiasi nemico, sicuro che il suo dio, in un modo o nell’altro, lo aiuterà ad imporsi. La r. esorcizza l’ignoranza e, così facendo, sostiene il morale delle persone, per le quali “è necessario avere delle conoscenze, anche se sbagliate, piuttosto che non averne affatto” (BEATTIE 1978: 288).
Ma perché la conoscenza sortisca il suo effetto rasserenante e catartico, essa deve apparire certa. Il dubbio, infatti, può per molti risultare insostenibile in un triplice senso: o perché li costringe ad un immobilismo improduttivo e ansiogeno, o perché non li motiva abbastanza, soprattutto nelle azioni di conquista o di resistenza eroica, o perché li spinge ad affinare le loro conoscenze, il che spesso sembra comportare risultati modesti se paragonati allo sforzo necessario per conseguirli. Ebbene, la r. garantisce la veridicità di ciò che afferma con l’autorità di chi parla a nome di un dio, ed è perciò in grado di offrire un pacchetto di verità assolute, buone a spiegare ogni cosa e, per di più, senza richiedere sforzo alcuno, rispondendo così a quel bisogno di certezze, che è propedeutico all’azione. “Dogmatizzare è un mezzo per soddisfare una bramosia di «certezza»” (RADNITZKY 1997: 48), che, a sua volta, è funzionale per una volontà di potenza. Nel fondamentalismo “l’incertezza non esiste” (THUROW 1997: 256), ma la capacità d’azione è massima.

16.2. Il ruolo dei sacerdoti e dei profeti
Una caratteristica fondamentale della r. è quella di ricondurre le sue verità dogmatiche ad un essere divino personale provvisto di volontà. Di qui la necessità di ricorrere a persone dotate di speciali attributi, tali da farle ritenere capaci di cogliere i segni che promanano dallo spirito divino, per poi trasmetterli e spiegarli ad altri. È evidente che chi sa leggere e interpretare la volontà degli dèi esercita un potere politico sulla comunità. Le prime figure in tal senso sono lo stregone e lo sciamano: il primo agisce sui demoni per mezzo di riti magici, il secondo impetra i favori del dio per mezzo della preghiera e del culto. Il sacerdote agisce in virtù del proprio ufficio, che si inquadra nel corso di una lunga tradizione; il profeta agisce in virtù del proprio carisma personale e al di fuori di ogni schema prestabilito. Il sacerdote è uno che guarda indietro e tende a perpetuare l’ordine vigente; il profeta è uno che rompe col passato e crea un ordine nuovo. Ma lo scopo è lo stesso: allontanare il male o attirare il bene.

16.3. La personalità del supplice
Oltre a ciò, la r. offre alle persone un’arma assai economica e redditizia, la preghiera, che consente loro di agire sugli eventi e propiziarsi i favori del proprio dio, senza particolari sforzi e con prospettive limitate solo dalla propria immaginazione. La preghiera è una richiesta fatta ad un dio con atteggiamento di umiltà e sottomissione, un’implorazione, una supplica, cui si possono riconoscere due attributi sostanziali. Il primo si riferisce alle parole pronunciate o pensate dal fedele, di solito con l’intenzione di rivolgere lodi o promesse alla divinità, al fine di indurla a concedergli i suoi favori, esaudire un suo desiderio, accordargli aiuto materiale o sostegno morale, perdonare i suoi errori, infondergli sicurezza e speranza. Il secondo attributo della p. si riferisce al tipico atteggiamento di inferiorità assunto dal supplice, che ricorda quello del bambino di fronte all’adulto. Il supplice si aspetta che la sua richiesta venga soddisfatta proprio in virtù del suo atteggiamento infantile, della sua condizione di debolezza, e non oserebbe mai tentare di risolvere un problema con le proprie forze, perché lo riterrebbe presuntuoso e blasfemo. Con la stessa logica, egli esprime il bisogno di rivolgere le sue preghiere anche a figure umane (un re, un signore, un leader) e crea le premesse per il costituirsi di una società duale. In definitiva, la r. rappresenta il terreno ideale per lo sviluppo della tipica personalità di chi ha bisogno di un capo, di un ordine gerarchico, di verità dogmatiche a cui credere. Siamo agli antipodi dello spirito democratico.
Nella pratica quotidiana i fedeli imparano a modulare i propri atti di fede sulla base della verifica dei risultati, che, tuttavia, spesso contrastano con le aspettative e con i contenuti delle preghiere. È per questo che buona parte dell’impegno delle gerarchie religiose è incentrato nel “trovare dei mezzi atti a giustificare l’atteggiamento renitente del dio, in modo tale che il suo prestigio non ne risulti sminuito” (WEBER 1999: 129). In concreto, quando le cose vanno male, l’autorità religiosa cerca di scagionare il dio, addossando ogni responsabilità sugli uomini. “Si fa allora strada la convinzione che non dipenda dalla debolezza del proprio dio se i nemici vincono o se altre sventure cadono sul proprio popolo, poiché l’ira del dio colpisce i suoi fedeli a causa delle loro violazioni degli ordinamenti etici che egli custodisce; che i propri peccati ne sono la causa e che il dio prende queste decisioni sfavorevoli proprio per correggere ed educare il popolo che ama” (WEBER 1999: 138). Si determinano così le condizioni per il radicamento dell’idea dell’incapacità dell’uomo di comportarsi in modo tale da poter meritare la benevolenza del dio, ma anche il bisogno di essere liberati, affrancati, riscattati da questa terribile condizione, il cosiddetto bisogno di redenzione.

16.4. Sacerdoti e re
La figura del re si afferma, insieme alla guerra, circa cinquemila anni fa e si affianca a quella, già esistente, del sacerdote. Le due figure si collocano ai vertici della piramide sociale, stabilendo fra loro un rapporto diretto e stretto, che può sfociare in una commistione (la funzione sacerdotale e regale sono unite nella stessa persona), in una competizione (sacerdote e re lottano per la leadership) o in un compromesso (il potere politico è esercitato dal re con l’appoggio del sacerdote, che riceve in cambio una serie di privilegi). In ogni caso, e per tutto il corso della storia, re e sacerdoti, con le rispettive cerchie di parenti, amici e sostenitori, costituiscono le élites dominanti e si distinguono dalla massa popolare per una nettamente maggiore potenza economica e militare. In virtù di questa evidente superiorità, essi assumono un ruolo paterno e si arrogano la funzione di custodire e prendersi cura dei sudditi-bambini, allo scopo, dicono, di conservare i favori della divinità e di preservare l’unità nazionale, in realtà per conservare il loro status sociale. Solo loro possono usare la propria testa e comportarsi da persone libere e, come tutte le persone libere di questo mondo, si distinguono nel bene e nel male, facendo cose eccelse e cose orribili. Re e sacerdoti sono gli artefici del progresso umano e degli stermini di massa, della pace e della guerra, della liberalità e della schiavitù, della cultura e dell’oscurantismo. Grazie al loro sterminato potere, essi producono ideologie funzionali ai propri interessi di dominio, mentre il popolo-bambino, che non ha i mezzi per decidere, innovare e creare, rimane escluso dai giochi che contano. Col passare del tempo, re e sacerdote si specializzano: il primo diventa simbolo della forza militare, il secondo l’interlocutore privilegiato del dio. Entrambi esercitano il potere politico, cioè il potere di decidere per tutti, che, essendo fondato e legittimato dalla divinità, si istituzionalizza e diventa stabile.

16.5. Politeisti e monoteisti
I popoli politeisti non hanno difficoltà a stabilire una gerarchia fra gli dèi e spiegano, agevolmente, un qualsiasi evento negativo, per esempio una carestia, un’epidemia, o una sconfitta militare, affermando che il proprio dio tutelare ha dovuto soccombere nei confronti di un dio più potente di lui. La gerarchia fra gli dèi ricalca quella che esiste fra gli uomini, sia pure ad un livello superiore, e dà ragione di un quadro politico ben noto agli studiosi di storia antica, nel quale ogni uomo, ogni clan, ogni popolo sa di essere soggetto al volere delle sue divinità tutelari ed è consapevole che dovrà condividerne il destino. Nella pratica quotidiana gli uomini si organizzano come possono, si compattano intorno ai propri dèi, cercano di coglierne e interpretarne i segni, lottano, si prodigano e, alla fine, trionfano o vanno incontro a terribili disfatte. In ogni caso, tutto ciò che accade rientra nell’imprevedibile intreccio fra ordine naturale delle cose ed eventi sovrannaturali, legato alla perenne competizione tra potenze divine e umane di diversa grandezza.
Per i popoli monoteisti, invece, è più difficile spiegare le calamità e gli insuccessi e, per non essere smascherate, le classi dominanti devono confidare nell’ottusità della gente, nella loro dabbenaggine e credulità, così da poter raccontare loro qualsiasi frottola ed essere ugualmente creduti. Ed è qui che la r. compie il suo capolavoro, che consiste nel far credere le cose più inverosimili, come, per esempio, quella che alcune persone sono diverse dalle altre, perché sono state prescelte da un dio e conoscono la verità. È solo quando l’uomo comincia a credere che il potere politico derivi da un dio, che possono affermarsi i regimi teocratici, quali sono quelli delle città-stato mesopotamiche, dell’antico Egitto, della Roma imperiale e delle moderne monarchie, in cui si ritiene che il sovrano sia collocato sul trono da Dio, che la sua azione di governo sia divinamente ispirata e che la sua volontà debba avere valore di legge sovrana e insindacabile. Insomma, se la fonte del potere è Dio, anche il prodotto del potere, ossia la politica, è di natura divina e si giustifica da sé. È su questa base che una minoranza si arroga il diritto di comandare su una massa di persone che vengono appositamente lasciate in uno stato di minorità e subalternità.
Origina così la società duale di tipo moderno, ossia provvista di istituzioni e regolata da codici di norme che vengono attribuiti a Dio e fatti osservare con la forza o con la minaccia di ricorrere alla forza. Insomma, la società duale nasce e si perpetua grazie al fattore religioso, il quale, evidentemente, non risponde solo ai bisogni delle persone, ma anche ai bisogni degli Stati, i quali giammai avrebbero potuto affermarsi e produrre istituzioni stabili solo in virtù del principio di forza.

16.6. Religioni monoteiste e Democrazia
Tutte le religioni svolgono le stesse funzioni psicologiche e rispondono agli stessi bisogni degli uomini, lo abbiamo già detto, ma non tutte le religioni si strutturano in centri di potere. Quando ciò accade, l’assetto sociale e politico ne risulta pesantemente condizionato in senso antidemocratico, come dimostrano i paesi dove forte è la presenza delle tre religioni monoteiste: ebraismo, islamismo e cristianesimo. Qui ci limiteremo a prendere in considerazione le religioni ebraica e cristiana.

16.6.1. L’ebraismo
Particolarmente interessante appare la riflessione politico-religiosa degli antichi ebrei, che finiscono per addossare sugli uomini ogni responsabilità sugli eventi della vita quotidiana delle persone e sulle vicende storiche, mentre a Dio vanno solo i meriti: se le cose vanno male, se ci sono le malattie, se c’è la morte, se c’è l’ingiustizia, se il re viene sconfitto, la colpa è solo ed esclusivamente dell’uomo; Dio non c’entra. Al contrario, quando le cose vanno bene il merito è unicamente di Dio. Così facendo, essi salvano, sì, la dottrina del monoteismo, sulla quale poggia ogni loro speranza, ma gettano discredito sulle istituzioni umane, compresa la monarchia, apparentemente senza accorgersi delle contraddizioni in cui si cacciano. Infatti, se il re è insediato da Dio, perché dovrebbe fallire? E, se il re fallisce, non dovrebbe essere Dio il responsabile primo? Se poi il re trionfa, perché non attribuire a lui almeno una parte del merito? Insomma, perché quando le cose vanno bene il merito è di Dio, quando vanno male, la responsabilità è unicamente del re e dei suoi sudditi?
Sotto l’aspetto strettamente religioso, la dottrina ebraica ha una sua coerenza perché, nel momento in cui si è stabilito che Dio è perfetto, non è più possibile addebitare a lui alcun errore, né è possibile non ascrivergli il merito di tutto ciò che va bene. Ma sul fronte umano rimane una certa discrepanza fra teoria e realtà.
In teoria, l’ebraismo dovrebbe essere compatibile con una società trasversale, egualitaria e anarchica, i cui membri sono tutti figli dello stesso Dio, che governa il mondo dall’alto dei cieli. In realtà, il potere politico è affidato a figure umane, prima il re e poi il sacerdote, che rimangono fallibili anche dopo aver ricevuto l’investitura divina. Gli ebrei rimangono invischiati in questo stato di confusione, dal quale non riescono a venir fuori (MUNI 1990), e il loro esempio ci può servire per capire quanto l’elemento religioso può incidere sulla politica dei popoli.

16.6.2. Il cristianesimo
Alle origini, il cristianesimo predica il comandamento dell’amore fraterno ed evoca i valori morali dell’uguaglianza e della solidarietà fra gli uomini, che sono scarsamente compatibili sia con un sistema politico piramidale e gerarchico, sia con l’estrema povertà e l’estrema ricchezza. Nei decenni che seguono la morte di Gesù, il cristianesimo è una r. poco nota, illegale e minoritaria, e le comunità dei cristiani se ne stanno ai margini della società in attesa di un imminente avvento del Regno di Dio. Si tratta di un movimento spontaneo e minoritario, che ama definirsi il «sale» che dà gusto alla vita o il «lievito» che fa crescere l’amore nel mondo, ma, dopo meno di tre secoli, questo cristianesimo cambia e assume i caratteri dell’istituzione politica, con tanto di edifici di culto e di gerarchia. A partire da Costantino, Chiesa e Stato vanno a braccetto e si sostengono a vicenda, sfruttando il naturale bisogno di religione degli uomini per le proprie logiche di potere. Inizialmente è Costantino il vero capo della Chiesa e questa non dispone di un potere proprio, ma lo riceve di riflesso dall’imperatore, il quale annovera fra i suoi titoli quello di «pontefice massimo», convoca concili, nomina e destituisce i vescovi, condiziona la composizione delle controversie dottrinali e, perfino, la definizione dei dogmi. Il papa ancora non esiste. Egli è solo un vescovo fra i tanti e un suddito, ma, già dal IV secolo, la Chiesa di Stato, quella che si chiamerà «cattolica», può servirsi del potere politico derivato per imporre a tutti la sua verità e scrivere pagine di storia davvero funeste.
La caduta dell’impero d’occidente pone il vescovo di Roma in una condizione del tutto inconsueta: da un lato egli è sottoposto, come sempre, all’imperatore, che ora risiede a Bisanzio, dall’altro vive a stretto contatto con le popolazione barbariche, che si avvicendano in Occidente e lo governano pur senza averne titolo (formalmente l’Occidente appartiene ancora all’imperatore romano). Alla fine, in Italia si insediano stabilmente i Longobardi, che stabiliscono col vescovo di Roma rapporti poco amichevoli, mentre in Francia regna la dinastia dei Merovingi. Pipino il Breve, padre di Carlomagno, è un semplice «maestro di palazzo» o «maggiordomo» ma, di fatto, il potere è nelle sue mani. La situazione è favorevole ad un’intesa fra Pipino e il vescovo di Roma, che al momento è Stefano II: il primo ha bisogno di un’autorevole legittimazione, il secondo desidera liberarsi dall’intollerabile peso dei Longobardi e affrancarsi dall’ingerenza dell’imperatore bizantino.
Stefano II si muove con grande determinazione e, furbescamente, fa redigere un falso documento, dove si legge che Costantino, per ringraziare papa Silvestro, che lo aveva guarito dalla lebbra, gli ha conferito il potere temporale su Roma e l’Italia e il primato su tutti i vescovi e sull’Occidente intero. Il documento, che passerà alla storia col nome di «donazione costantiniana», viene fatto opportunamente circolare, affinché siano a tutti noti i «diritti» del papa. In un’epoca in cui i Carolingi hanno tutto l’interesse di garantirsi l’appoggio della Chiesa, non c’è da meravigliarsi che nessuno pensa di verificare non dico l’autenticità, ma nemmeno la plausibilità della «donazione», la quale perciò viene accettata come autentica, senza tante discussioni. Per quanto abbia interesse a compiacere Stefano II, Pipino non può certo riconoscergli il potere sull’Occidente e si limita a donargli Roma insieme ad un vasto territorio dell’Italia centrale, che i Franchi hanno sottratto ai Longobardi. Inizia così il potere temporale del vescovo di Roma, che ora, ma solo ora, è divenuto capo supremo riconosciuto della Chiesa d’occidente, ossia papa. Riconoscente, anche se non del tutto soddisfatto, Stefano II incorona Pipino e Carlomagno rispettivamente re dei Franchi (754) e imperatore del Sacro Romano Impero (800), conferendo loro quella legittimazione che vanno cercando da tempo, ovviamente nel nome di Dio. Il fatto è inconsueto e deve apparire di certo molto singolare dal momento che, in pratica, viene a ribaltare una consuetudine consolidata, secondo la quale è il papa che riceve il potere dall’imperatore, e non il contrario. Ma tant’è, e le conseguenze non si fanno attendere. Infatti, già ai tempi di Carlomagno, si registrano le prime guerre di r. contro i Sassoni, che vengono costretti a convertirsi sotto la minaccia della pena di morte.
Da qui in avanti, i papi si muovono nello scacchiere internazionale da politici consumati e giungono a sfidare l’imperatore per il dominio universale, appellandosi ai «diritti» che derivano loro dalla «falsa donazione» e ad alcune ardite teorie elaborate dagli intellettuali del tempo, che indicano nel papa il capo assoluto di tutto l’Occidente, anzi di tutta la terra, dinanzi al quale re e imperatori devono inchinarsi. L’imperatore certo non può condividere quel comportamento e reagisce con sdegno e determinazione, ma, poiché il papa non intende recedere, ne nasce una contesa, che terrà occupate le migliori menti tra la metà dell’XI secolo e gli inizi del XIV e che conoscerà momenti di grande tensione. Come se ciò non bastasse, a partire dall’XI secolo, in politica estera, i papi bandiscono crociate contro gli infedeli musulmani, dando così inizio ad uno scontro fra civiltà senza precedenti, mentre, in politica interna, organizzano la caccia alle streghe e la persecuzione degli eretici.
Col XIV secolo, l’idea stessa di potere universale comincia a vacillare sotto l’incalzare delle emergenti monarchie, ed è proprio il re di Francia, Filippo il Bello, che, costringendo il papa a trasferire la sua sede in terra francese, ad Avignone (1309), dove rimarrà per circa settant’anni, lo tiene sotto il suo completo controllo e se ne serve per gli interessi della corona. Ritornati a Roma, i papi riprendono la loro politica di grandezza, ma ormai i tempi sono irrimediabilmente cambiati e i centri di potere locale (le monarchie) hanno definitivamente reso anacronistica l’idea di un potere universale, sia esso del papa o dell’imperatore. I papi puntano allora su un altro tipo di dominio universale, quello spirituale, senza rinunciare, tuttavia, alle ambizioni politiche e materiali. Tra le conseguenze di questa nuova politica vanno ricordate la pressione missionaria sulle popolazioni del Nuovo Mondo e le guerre di religione in Europa. Per far cassa, i papi ricorrono perfino alla vendita delle indulgenze, fatto questo che induce molti nobili spiriti a fondare, per reazione, ordini mendicanti e che farà indignare Lutero a tal punto da indurlo allo scisma. Ma il papa non cambia politica e, mentre proclama la Chiesa unica depositaria della Verità, non dà tregua ai dissenzienti.
In Francia, nel XVIII secolo, l’alto clero costituisce il Secondo Stato e, insieme al Primo Stato (la nobiltà), vive nell’ozio e nel lusso, a spese del popolo. Tale situazione viene rovesciata con la forza dalla Rivoluzione e, tuttavia, il papa non rinuncia alla sua politica di potenza e si oppone strenuamente ai princìpi del liberalismo democratico e dell’individualismo propugnati dalle Rivoluzioni americana e francese. Nel 1832 Gregorio XVI giunge a condannare la libertà di stampa e la libertà di coscienza! Ma i tempi incalzano e, dopo il 1859 (anno della pubblicazione de L’origine delle specie di Darwin), scoppia il caso della teoria evoluzionistica, che mette in dubbio la verità della Bibbia. L’opposizione della Chiesa è durissima.
Intanto i moti nazionalistici, che tendono a creare un’Italia unita, minacciano il potere temporale del papa. Accortosi che il suo regno gli sta sfuggendo di mano, Pio IX rivela doti di grande combattente e, approfittando del fatto che i vescovi sono riuniti in concilio, li induce ad accettare il dogma dell’infallibilità papale. Lo scopo è evidente: forzare l’opinione pubblica e il mondo intero in favore della conservazione dello Stato pontificio. Se il papa, che è infallibile, stabilisce che il suo potere temporale è un diritto sacrosanto, come si può negarglielo? Il dogma è approvato in tempi rapidissimi, quando già i bersaglieri sono alle porte di Roma, ma non sortisce gli effetti sperati. Nel 1870, Roma e lo Stato pontificio vengono annessi all’Italia e l’Unità nazionale è quasi del tutto compiuta. Il papa protesta con veemenza ed esibisce un atteggiamento sdegnoso e polemico, allo scopo di richiamare su di sé e sulla propria triste condizione l’attenzione compassionevole della pubblica opinione e delle autorità politiche internazionali; rimane chiuso nei suoi palazzi e si proclama prigioniero politico, imitato dai suoi successori. L’atteggiamento dei papi cambia solo nel 1929, anno del Concordato con Mussolini, e solo allora essi si rassegnano a rinunciare al potere temporale e mostrano di accontentarsi solo del potere spirituale.
Dopo il Concordato, il papa può esercitare un’indiscussa autorità morale e, se non ha più un regno, può tuttavia contare su un’organizzazione e un impero economico a livello mondiale, il che gli consente di condizionare le scelte politiche di molti governi, che vengono ancorate su posizioni tradizionalistiche e antiriformistiche. Al centro della dottrina sociale della Chiesa c’è la famiglia, la logica di gruppo e l’organizzazione piramidale della società. Socialismo e capitalismo sono fatti oggetto di critica, ma la proprietà privata è tollerata e così pure la ricchezza e la povertà. Su tutto domina l’Unica Verità, che, unita al principio d’obbedienza, favorisce l’affermazione di uno spirito di tipo assolutistico e autoritario, che si oppone non solo alla democrazia, ma anche a tutte quelle acquisizioni della scienza (manipolazione genetica, fecondazione assistita, clonazione, utilizzo di cellule staminali di embrioni al di sotto di 14 giorni a scopo di ricerca e terapia) o a quelle questioni morali (contraccezione, aborto, divorzio, coppie di fatto, eutanasia), che chiamano in causa la libertà responsabile dell’individuo. Su tutti questi fronti la Chiesa oppone i suoi veti e pretende di imporre le sue verità eterne sulle mutevoli coscienze delle persone.
La Chiesa è contraria alla libertà disgiunta dalla verità e ammette un solo modo di essere liberi: quello di sottomettersi alla sua verità. Ma che differenza c’è tra questa posizione e quella di un qualsiasi dispotismo? “È ovvio che la Chiesa desidera che il proprio insegnamento sia liberamente e consapevolmente accettato; ma anche il marxismo nutriva questo desiderio. E lo nutre ogni totalitarismo” (SEVERINO 1995: 41). Insomma, se è vero che la Chiesa condanna a parole ogni forma di autocrazia, è anche vero che essa è di fatto fautrice di una dottrina totalitaria. “La dottrina sociale della Chiesa è totalitarismo perché, anche se ritiene di esserne il rifiuto più radicale, e anche se non vuol costringere nessuno a credere, tuttavia, in linea di principio, essa mira a togliere ogni valore legale al comportamento politico del non credente” (SEVERINO 1995: 59). Non solo la Chiesa è contraria alla libertà di coscienza, essa vuole anche cittadini piccoli, mansueti e sottomessi, e anche un po’ ottusi, che accettano le sue verità senza fiatare, anche quando sono autentiche mistificazioni, com’è avvenuto, per esempio, in occasione della divulgazione del terzo segreto di Fatima.

16.6.2.1 Il segreto di Fatima
Nel lontano 1917 la Madonna appare a tre pastorelli e svela loro tre terribili segreti, due dei quali vengono svelati negli anni immediatamente successivi, ma il terzo, il più terribile, verrà svelato solo nel maggio del 2000, dopo 83 anni! Certo, dopo tanta attesa, la gente si aspettava qualcosa di veramente clamoroso e, invece, la Chiesa svelava che il terribile segreto si riferiva al fallito attentato a Giovanni Paolo II avvenuto nel 1981. Insomma, nel 1917 la Madonna avrebbe confidato ai tre pastorelli un terrificante segreto, e cioè che nel 1981 ci sarebbe stato un attentato al papa, e questo segreto veniva svelato nel 2000. Tale è il succo della questione. Ma era davvero così spaventoso questo segreto da doverlo tenere nascosto per tutti quegli anni? Ed era il caso che la chiesa e i media dessero tanto risalto ad una notizia diffusa così tardivamente, quando l’evento cui essa si riferiva era già vecchio di 19 anni? Perché la chiesa non ha svelato il segreto già nel 1981? Perché la gerarchia vaticana (e i media) non hanno provato imbarazzo per avere divulgato una notizia, tutto sommato non sensazionale, con diciannove anni di ritardo? Perché quella notizia, ormai priva di attualità, risultava ancora vendibile? E con che audience!
Questa vicenda dimostra che il cittadino medio ha scarsa autonomia di giudizio, non è abituato a riflettere e a ragionare, si lascia condurre dall’emozione e dai sentimenti, e gli va bene così. Un cittadino siffatto può essere preso in giro impunemente. Anzi, forse egli stesso ha piacere di essere menato per il naso, perché ciò soddisfa il suo bisogno di sentirsi bambino. E alla Chiesa va ancora meglio, perché può conservare il suo immenso potere senza tanta fatica. Va male invece per la democrazia, che, con questi cittadini acritici e creduloni, non può avere un presente, né tantomeno un futuro.
Così stando le cose, vediamo adesso il diverso modo con cui DD e DR si pongono di fronte all’elemento religioso.

16.7 La religione DD
La democrazia è messa in pericolo in tutti i casi in cui vi sia una tendenza alla concentrazione del potere e alla dogmatizzazione della verità, ed è proprio questo purtroppo che ha caratterizzato l’azione della Chiesa negli ultimi diciassette secoli della sua storia. La Chiesa ha tentato la conquista di due monopoli (il potere politico e quello spirituale), giustificandola con la presunzione di possedere già il monopolio della verità. Ed è qui che dobbiamo vedere la sua pericolosità nei confronti della democrazia, nell’arrogarsi il monopolio della verità. Infatti, come nota Gustavo Zagrebelsky, “Verità e autorità sono ovviamente incompatibili con dialogo e libertà” (2008: 45).
Un cittadino democratico potrebbe chiedersi: perché le verità religiose devono essere più vere delle altre, anzi le uniche verità vere? La risposta è implicita nella natura stessa della r.: perché provengono da Dio, che, per definizione, è perfetto e infallibile. È Dio il garante della verità. Ma Dio esiste davvero, potrebbe chiedersi ancora il nostro cittadino? Nei tempi antichi l’esistenza di esseri spirituali era considerata una cosa ovvia ed erano veramente in pochi a porsi simili domande, anche se, quando ciò accadeva, non era raro che essi giungessero ad una conclusione agnostica o francamente atea. È il caso di Epicuro, il quale così argomentava: “Dio o vuole togliere i mali e non può, o può e non vuole, o non vuole e non può, o vuole e può. Se vuole e non può, è impotente; se può e non vuole, è invidioso; se non vuole e non può, è invidioso e impotente; se vuole e può, come mai esistono i mali?” (TORNO 1995: 165). Alla fine di questa riflessione, Epicuro giungeva alla seguente conclusione: o Dio non esiste o, se esiste, non si occupa del mondo. L’argomentazione epicurea rimane ancora oggi valida e a nulla è servito il tentativo, da parte dei pensatori cristiani, di giustificare il male alla luce del peccato originale di Adamo. Che giustizia c’è, infatti, nell’addossare sui figli le colpe dei padri, nel far ricadere su di noi la colpa di Adamo, che nemmeno conosciamo? E poi, come spiegare la sofferenza degli animali che non discendono da Adamo e neppure possono sperare in una giustizia ultraterrena?
Fino ad oggi, nessuno è stato in grado di fornire una dimostrazione di tipo scientifico, obiettiva e incontrovertibile, dell’esistenza di Dio e le opinioni degli studiosi coprono le più disparate interpretazioni, che vanno dalla fede piena e incondizionata, all’assoluta negazione, passando per tutte le possibili e immaginabili fasi intermedie. Nel corso dei secoli, i pensatori cristiani, in particolare S. Anselmo d’Aosta e S. Tommaso d’Aquino, hanno addotto una serie di prove a dimostrazione dell’esistenza di Do, che però hanno suscitato forti opposizioni all’interno del cristianesimo stesso (CANTELLI 1986: 670) e sono state confutate dai filosofi, da Gugliemo di Occam a Kant, e anche da autorevoli pensatori laici contemporanei, come Richard Dawkins (2007) e John Allen Paulos (2008).
Non è mio intento di addentrarmi nei dettagli di questa intricata questione e mi limito a constatare, con Armando Torno, che essa dev’essere considerata un’”impresa vana” (1993: 10) e, anche se una dimostrazione scientifica fosse possibile, essa risulterebbe incompatibile con la fede. Infatti, come ha osservato acutamente Giuseppe Prezzolini, se si potesse provare Dio, la fede non avrebbe più alcun valore, non essendoci merito in un’operazione logica.
Se l’esistenza di Dio non può essere provata, e non ha nemmeno senso che si tenti di provarla, rimangono quattro alternative possibili: o la si respinge come falsa (ateismo), o la si accetta per vera (fede), o la si ritiene qualcosa di desiderabile e su cui riporre la propria speranza indipendentemente dalla sua veridicità (opportunismo alla Pascal), o la si considera come qualcosa che è al di fuori della nostra portata e su cui è vano pronunciarsi (agnosticismo).
In un sistema DD, tutte queste posizioni sono fatte oggetto del massimo rispetto e si vigila affinché nessuna di esse abbia a prevaricare sulle altre. Così, chi ha fede in Dio potrà anche credere che le verità religiose siano le uniche verità vere, mentre chi la fede non ce l’ha potrà porre le verità religiose sullo stesso piano di tutte le altre verità umane, e lo stesso dicasi di quanti preferiscono un atteggiamento agnostico, che potrebbero disinteressarsi del fattore religioso, e degli opportunisti, che potrebbero scommettere su Dio per semplice convenienza. La DD lascia tutti liberi di aderire a qualunque dottrina religiosa o di professare l’ateismo, purché non pretendano di inculcare negli altri le loro idee e non determinino aggravio economico per lo Stato, ma, soprattutto, purché non presumano di essere portatori di verità superiori e cerchino di imporle agli altri, in qualsiasi modo, peggio se con la forza. Questo si chiama pensiero laico, cioè libero da pregiudizi.
Secondo molti pensatori laici, a volte, la chiesa esercita delle pressioni sullo Stato in modo scorretto e nel non rispetto della legge. Così nel 1998, promosso da Giorgio Bocca, Alessandro Galante Garrone, Vito Laterza, Paolo Sylos Labini e altri, è stato reso pubblico un «manifesto laico», che ha raccolto l’adesione di oltre 25 mila cittadini, alcuni dei quali illustri, come Paolo Flores d’Arcais, Sergio Garavini, Eugenio Garin, Margherita Hack, Margherita Isnardi Parente, Giacomo Marramao, Franco Restaino, Corrado Stajano, Gianni Vattimo, Carlo Augusto Viano, Maurizio Viroli. In particolare, il Manifesto condanna la richiesta della chiesa di aiuti statali per la scuola privata, ritenuta contraria ai dettami costituzionali. L’art. 33 della Cost., infatti, che chiunque può aprire una scuola privata, purché senza oneri per lo Stato. “Noi facciamo una battaglia politica, cui partecipano credenti e laici, affinché la religione resti cosa delle coscienze, nessun insegnamento confessionale entri nella scuola di tutti, nessuna scuola confessionale sia detta pari alla libera scuola dello Stato, nessuna Chiesa possa imporre allo Stato oneri a favore della sua scuola…” (p. 58).
Secondo Gustavo Zagrebelsky, “Le fedi religiose non sono affatto un problema per la democrazia liberale […]. Il problema non sono i credenti, ma è la Chiesa” (2008: 41). Il fatto è che la democrazia non può tollerare che chicchessia, foss’anche il papa, pretenda di far passare un’opinione come l’unica verità ed esiga di imporla a tutti. “Tutti possiamo avere la nostra verità e sceglierci i nostri maestri, ma a nessuno è dato di imporre la propria verità come la Verità” (Zagrebelsky 2008: 91). Il dissidio chiesa/democrazia è inevitabile; e, infatti, “La Chiesa cattolica non ha mai aderito senza riserva alla democrazia né mai l’ha accettata come unico regime legittimo” (Zagrebelsky 2008: 87). Per mentalità e per vocazione, la chiesa è favorevole ad un tipo di governo autoritario, accentrato e paternalistico, e non è per caso che essa costituisce l’unico esempio oggi esistente di monarchia assoluta. Se la democrazia è quel sistema politico dove tutti i cittadini hanno diritto di partecipare al processo deliberativo e di esercitare i diritti di opinione e di parola, e dove tutto è sotto il regno del relativo e dell’opinabile, ebbene, la chiesa è l’esatto contrario. Se chiesa e democrazia sono antitetiche e si escludono a vicenda, ne consegue che dove la chiesa è forte la democrazia è debole, e viceversa, che non si può coltivare la democrazia senza indebolire la chiesa.
Oggi disponiamo dei mezzi necessari perché il popolo possa esercitare effettivamente la sovranità che gli appartiene di diritto, ma per riuscire in questa impresa occorre che i cittadini vogliano diventare adulti. Solo se un numero crescente di cittadini cominciassero ad usare la propria testa, si potrebbe sperare di fondare un giorno una società senza figure paterne, senza sacerdoti e senza re, dove alla logica del potere elitario si sostituisca la logica del potere distribuito fra tutto il popolo. Allora la chiesa potrebbe perdere il suo impianto istituzionale-gerarchico e ridursi ad una questione privata e personale, e, nello stesso tempo, le sue funzioni magisteriali, che la autorizzano a spiegare il mondo e a farsi custode del monopolio della verità, passerebbero alla scienza. Ma, finché il popolo si compiace di rimanere nello stato minoritario in cui è stato relegato per millenni dalle classi dominanti, crogiolandosi nei vantaggi che lo stato infantile comporta, la Chiesa continuerà a tessere le sue trame politiche e a svolgere impunemente le sue antiche funzioni, mentre la democrazia sarà costretta a vivacchiare, se non addirittura ad uscire di scena.
Partendo da questi presupposti, la DD si oppone all’istituzionalizzazione di apparati ecclesiali gerarchici, perché sa dalla storia che questi tendono a creare regimi autoritari, a coartare le libertà personali, a edificare recinti culturali, ad alimentare un clima di intolleranza, se non di odio, che si può estinguere solo col ricorso alla forza. E tutto ciò non può, ovviamente, che opporsi all’attecchimento dei valori democratici. La DD rammenta che mai una guerra è stata combattuta in nome dell’ateismo o dell’agnosticismo, per la semplice ragione che queste posizioni implicano e si accompagnano al rispetto dell’altro. “Le guerre di religione, invece, sono combattute in nome della religione e sono state orribilmente frequenti nel corso della storia” (DAWKINS 2007: 275).
In conclusione, la DD non può essere che laica, non può non riconoscersi nei valori della laicità, che consistono principalmente nell’accettazione incondizionata dell’altro e nell’etica relativista. Secondo Stefano Rodotà, il laico deve “essere capace di esprimere con forza e convinzione il suo punto di vista, ma al tempo stesso deve lavorare perché vi siano le condizioni per un confronto aperto e continuo tra i diversi punti di vista” (2009: 111). Come correttamente osserva Franco Crespi, “La cultura laica, ponendosi criticamente nei confronti di ogni forma di assolutizzazione ideologica, è l’unica oggi in grado di riportare l’attenzione sui problemi concreti della vita quotidiana, sui bisogni materiali e un’equa distribuzione delle risorse, ma anche sul desiderio di felicità e di autorealizzazione” (2008: 25-6). La laicità è la condizione irrinunciabile per il rispetto reciproco delle persone, ed è anche, come nota Rodotà, “una dimensione della libertà, uno strumento per la libera formazione della personalità, un elemento essenziale per la convivenza” (2009: 60). In definitiva, la laicità è la piattaforma, insieme al relativismo, da cui la DD prende le mosse per giungere al rispetto dell’unicità e della diversità della persona e al suo “riconoscimento dettato dall’amore” (CRESPI 2008: 95). Chiudo ricordando le seguenti parole di Bertrand Russell, con cui la DD si identifica: “Il mondo non ha bisogno di dogmi; ha bisogno di libera ricerca” (1997: 172).

16.8. La religione DR
Un sistema DR consente che la r. assuma i caratteri strutturali di un centro di potere politico, economico e spirituale. Per quel che attiene il potere economico, basta leggere i recenti libri di Curzio Maltese, La questua (2008), e di Claudio Rendina, La santa casta della Chiesa (2009), per rendersi conto che la chiesa non solo gestisce, spesso in modo poco trasparente, enormi risorse finanziarie, che in buona parte derivano dalle casse dello Stato, ossia dalle tasche degli italiani, anche dei non cattolici, ma usufruisce anche di un potere enorme sulle istituzioni politiche e sulle persone, che non ha sempre gestito in modo edificante, come ci si aspetterebbe da un’emanazione di Dio. Grazie alle sue risorse, la chiesa può disporre di network e di organi di stampa che, in aggiunta alla presenza capillare delle parrocchie, la mettono in grado di raggiungere ogni casa.
I governi occidentali, che annoverano nelle loro fila molti politici cattolici, la sostengono per molte ragioni, non ultima quella del consenso, e in molti modi: attribuendole l’otto per mille e altre agevolazioni fiscali, finanziando le scuole cattoliche, riconoscendole una speciale autorità morale e privilegi nei confronti di altre religioni, affidandole la formazione spirituale dei cittadini e perfino lasciando che essa si appropri della coscienza dei bambini. Infatti, non c’è oggi al mondo paese civile che non accetti “l’idea assurda che sia giusto e normale inculcare nei bambini piccoli la fede dei genitori e marchiarli con etichette religiose («bambino cattolico», «bambino protestante», «bambino ebreo», «bambino musulmano» ecc.) che non hanno equivalente in nessun altro campo: non ci sono per esempio bambini conservatori, bambini progressisti, bambini repubblicani, bambini democratici” (DAWKINS 2007: 333).
La DR appoggia la chiesa, la quale si oppone alla democrazia partecipativa e appoggia la DR. Questo è il circolo vizioso e perverso che tiene lontana la democrazia diretta dai nostri paesi e le impedisce di mettere radici fra la gente.