venerdì 28 agosto 2009

1. Individualismo e Democrazia

Generalmente l’individualismo non è annoverato fra i principi fondamentali della democrazia, e ciò deve apparire sorprendente se si considera che l’individuo umano costituisce una componente essenziale di ogni società.

1.1. Che cosa significa individualismo?
Se lo guardiamo con gli occhi della singola persona, significa credere in se stessi, avere un proprio progetto di vita, volere pensare con la propria testa e coltivare le proprie qualità. Se lo guardiamo invece con gli occhi dello Stato, significa credere nel cittadino, accordargli fiducia, investirlo di responsabilità politiche, dar voce alla singola persona, accettando la sua unicità e diversità, senza pretenderne l’omologazione, significa cioè democrazia. In pratica, lo scopo ultimo di un buon governo democratico dovrebbe essere quello di “promuovere la capacità dell’individuo a realizzare in maniera autonoma i propri obiettivi personali” (CRESPI 2008: 97).
Individualismo significa anche superare la logica di gruppo, che impone il conformismo e tende a fare di ogni persona uno «schiavo felice». Il fatto è che non tutti accettano l’omologazione e nemmeno accettano il ruolo di emarginati in cui vengono spesso sospinti. Avviene allora che alcuni soggetti, animati da un invincibile desiderio di essere riconosciuti e apprezzati per quello che sono, cedono al fascino di piccoli gruppi devianti, senza accorgersi che, così facendo, saltano dalla padella alla brace. Anche il gruppo deviante, infatti, accetta il nuovo venuto solo a condizione che egli rinunci ad essere se stesso. Sono pochi gli individui che, resistendo alle lusinghe conformiste dello Stato e dei gruppi devianti, riescono ad esprimere tutto il proprio potenziale umano, ma è grazie a questi uomini eccellenti che l’umanità può progredire. Immaginiamoci come sarebbe il mondo se i governi degli Stati consentissero la libera espressione di tutto il capitale umano!
Individualismo non vuol dire solipsismo, né egoismo smodato e senza regole. Essendo, infatti, la socialità uno dei bisogni fondamentali della persona, un egoismo che escludesse completamente l’altro sarebbe contrario agli interessi della persona stessa e, dunque, sarebbe ascrivibile all’ambito della patologia. Un sano egoismo non può prescindere da una qualche forma di benevolenza per l’altro. Ulrich Beck parla di «individualismo altruista» e osserva che i due termini non si escludono a vicenda, ma, al contrario, si rivelano “profondamente e intimamente complementari: chi vive per sé, deve vivere socialmente” (BECK 2000: 50).

1.2. Le basi evoluzionistiche dell’individualismo
L’individuo umano si inserisce nel processo evolutivo della vita sulla terra, che è iniziato oltre un miliardo di anni fa con organismi costituiti da una sola cellula rudimentale, ossia con individui «puri e semplici», capaci cioè di vivere e riprodursi in modo isolato e senza doversi rapportare con altri cospecifici. Questi individui primordiali non hanno bisogno né di una famiglia, né di un gruppo, né di una società, né di uno Stato. È solo nel corso di un lungo processo evolutivo che compaiono individui sempre più complessi, l’ultimo dei quali, il Sapiens (circa 100 mila anni fa), è dotato di caratteristiche straordinarie, come un linguaggio articolato, l’autocoscienza e la stretta dipendenza da un gruppo sociale (che inizialmente è la famiglia e la banda). Il Sapiens ha bisogno almeno di una famiglia, sia per sopravvivere, sia per esprimere le proprie potenzialità ed elaborare il proprio progetto di vita.
Col trascorrere del tempo, il sempre più difficile equilibrio fra incremento demografico e disponibilità di risorse fa sì che al Sapiens non basti più la famiglia, e nemmeno la banda, per i propri bisogni, ed è per questo che egli crea gruppi sempre più grandi, quali sono il clan (circa 80 mila anni fa), la tribù (circa 40 mila anni fa) e lo Stato (circa 5 mila anni fa). Quel che accomuna questi gruppi di varia grandezza è il loro ruolo strumentale nei confronti dei bisogni degli individui. In altri termini, sono i bisogni degli individui che determinano la formazione di società sempre più numerose e complesse, in grado di rispondere meglio alle sfide del momento, che richiedono maggiore divisione dei compiti, maggiore produzione e un più efficace sistema di difesa.
Su queste questioni, che pure sembrano chiare, DD e DR esprimono posizioni alquanto diverse.

1.3. Individualismo e DD
La DD parte dall’assunto che è possibile immaginare individui umani che vivono in piccoli gruppi familiari e ignorano lo Stato, ma non è possibile immaginare una qualsiasi comunità umana senza individui. Ne deduciamo che l’individuo precede lo Stato e costituisce la materia prima di ogni società. Ebbene, l’assunto della DD è che il vero soggetto della politica non è, e non può essere lo Stato, ma la persona individuale. “La democrazia è fondata sugli individui, non sulla massa” (Zagrebelsky 2008: 124). Detto in altri termini, “La base della società e del governo è l’essere umano come tale, né più né meno” (Zagrebelsky 2008: 47).
La DD si fonda sul desiderio di autonomia individuale e dove questo desiderio sia conculcato la democrazia stenta ad attecchire e si afferma la società duale, ossia un qualsiasi governo centrato sulla figura di uno o pochi «capi» (re, principi, signori, presidenti, sacerdoti, padri, pastori, chiamiamoli come vogliamo), che guidano e dominano la massa popolare. Il cittadino che non desidera la propria autonomia favorisce la «capocrazia», la quale, a sua volta, lo tratta come un bambino e gl’impedisce di crescere. Se non approda all’autonomia, l’individuo non si sente sicuro e avverte l’esigenza di appoggiarsi ad altri, come un figlio si appoggia al padre e favorisce l’affermazione di governi paternalistici.
In un paese a regime DD, “Il grande soggetto storico […] non sono le classi, non sono le famiglie, non sono le associazioni, non sono i gruppi di interesse, ma sono gli individui. La società futura, quella che noi possiamo auspicare, la democrazia integrale, ecc., è una società di individui dei quali ciascuno si assume la responsabilità e il rischio del proprio destino” (GRECO 2000: 202). Così si esprimeva Norberto Bobbio in un’intervista nel 1984. Lo stesso Bobbio, qualche anno dopo, precisava: “prima viene l’individuo, si badi, l’individuo singolo, che ha valore di per se stesso, e poi viene lo stato” (1992: 59). Di conseguenza, si deve ammettere “che lo stato è fatto per l’individuo e non l’individuo per lo stato” (BOBBIO 1992: 59). Il collettivo non viene mai preso in considerazione indipendentemente dagli individui che lo costituiscono. In conclusione, a differenza dei regimi autoritari, che vedono nel popolo solo una massa indistinta, “La democrazia è fondata sugli individui” (ZAGREBELSKY 2007: 18).
Godwin ha scritto: “non è vero che la massa della nostra specie debba essere tenuta costantemente al guinzaglio come i bambini, mentre solo pochi hanno la prerogativa di pensare e dirigere per tutti” (1997: 72). Uno che parla così dev’essere necessariamente un democratico, perché solo un democratico può affermare che non c’è alcuna ragione per non accordare fiducia ai cittadini volenterosi, né alcuna prova certa che un cittadino ben educato non sia poi in grado di assumersi responsabilità politiche. La regola che ordina le attività sociali di un paese DD è la sussidiarietà. “Il gruppo – osserva Cerri – rappresenta l’individuo fino a che questi non è pienamente capace, ma questo poi può, in tutto o in parte, sempre distaccarsene liberamente” (2005: 126). La regola DD recita che nessun gruppo deve oscurare l’individuo, né deve intervenire finché questi sia autonomo e disposto a fare da sé. È questo tipo di individualismo che sta alla base della DD.
Secondo James G. March e Johan P. Olson, gli ideali democratici “si fondano sulla credenza nella capacità dei cittadini, uomini e donne, di governare se stessi e decidere del proprio destino” (1997: 8), cioè sulla fiducia nel cittadino. È questa fiducia, ossia l’”ipotesi che tutti possano decidere di tutto” (BOBBIO 1991: 23), che fonda e caratterizza la DD ed è in virtù di questa fiducia che la DD investe molto sugli individui e li accompagna fino al raggiungimento dell’autonomia di pensiero. È su questa fiducia che possono svilupparsi esperienze di democrazia partecipativa, come quella che ha fatto di Porto Alegre, una città del Brasile con circa un milione e trecentomila abitanti, “la città con la migliore qualità di vita del paese” (PONT 2005: 48). Solo uno Stato che ha fiducia nell’uomo può diffondere “la convinzione che il mondo dipende, in larga misura, da noi” (GINER 1998: 117) e formare cittadini “che possiedano la capacità e la fiducia in sé necessarie per assumersi la responsabilità della propria vita, sia individualmente che collettivamente” (in ARCHIBUGI, BEETHAM 1998: 38).
Gli antichi filosofi greci furono i primi ad accreditare l’uomo dei mezzi necessari per giungere alla verità, e fu proprio questa fiducia a rendere possibile l’affermazione della democrazia. Protagora e Pericle ritenevano che tutti i cittadini fossero in grado di contribuire al governo della polis, ciascuno secondo le proprie qualità naturali, la propria volontà personale e l’educazione ricevuta, tutti elementi che possono essere indipendenti sia dalla ricchezza che dalla nobiltà di nascita. Secondo loro, colui che si fosse impegnato maggiormente a migliorare se stesso, costui avrebbe potuto contribuire maggiormente all’ordinamento politico della polis. Di qui la necessità di formare il cittadino ed educarlo alla vita sociale e politica. Questo compito fu svolto in parte dai sofisti, i quali trasmettevano il loro sapere ai cittadini interessati che se lo potevano permettere, in parte dalla stessa pratica assembleare, che non solo era a costo zero, ma era anche remunerata dallo Stato. Riunendosi regolarmente in assemblea, giorno dopo giorno, i cittadini apprendevano l’arte politica. È così che gli antichi ateniesi imparavano ad assumersi responsabilità di governo, dedicandosi agli affari della polis allo stesso modo in cui si dedicavano agli affari di casa propria.
Oggi, perfino pensatori avversi alla DD, come lo è Giovanni Sartori, non possono fare a meno di ammettere che una certa dose di individualismo è sicuramente un bene per la società. “Forse troppo individualismo è cattivo; e certo l’individualismo si manifesta in forme deteriori. Ma al tirare delle somme non dovrebbe sfuggire che il mondo che non riconosce valore all’individuo è un mondo spietato, disumano, nel quale uccidere è normale, normale come morire. Era così anche per gli antichi; non più per noi. Per noi uccidere è male; male perché la vita di ogni uomo conta, vale, è sacra. È questa credenza di valore che ci fa rifiutare la crudeltà degli antichi e, ancora oggi, delle società non-individualistiche” (SARTORI 1993: 149).
Finché accompagnavo i miei figli negli spostamenti in città, essi non conoscevano le vie, ma quando hanno cominciato a muoversi da soli hanno imparato in fretta. Anche mia moglie, fino all’età del matrimonio, non sapeva sbrigare le faccende di casa, dal momento che era sua madre ad occuparsi di tutto, ma quando si è trovata da sola, in poco tempo ha superato in bravura la stessa madre. Quanti errori non ho fatto nei primi tempi in cui guidavo l’automobile o smanettavo col computer! Ma se io oggi sono un discreto utilizzatore dell’automobile e del computer, lo devo certamente a quegli errori. Il primo punto dunque è fare. La formazione politica del cittadino deve perciò iniziare già all’interno della famiglia e deve coinvolgere tutte le forze vitali dello Stato. Ma perché il fare sia produttivo e vantaggioso per la comunità, occorre che la mente del cittadino sia libera da problemi di sussistenza. Di qui l’importanza del Reddito Minimo Garantito (RMG), di cui avremo modo di parlare.
L’intera politica DD ruota intorno al cittadino democratico, autonomo e responsabile, che sa “pensare con la propria testa” (GANDHI 1992: 337) e non disdegna di assumersi responsabilità personali e pubbliche. “Nella vera democrazia si insegnerà a ogni uomo e donna a perché il cittadino democratico è il cuore pulsante della democrazia. Ha ragione dunque Salvador Giner quando ammonisce che “uno dei compiti più seri che oggi dobbiamo affrontare è quello di creare buoni cittadini, ossia soggetti attivi e responsabili, in luogo di gente indifferente alla causa comune” (1998: 98). Held parla di «principio dell’autonomia». “Autonomia significa capacità degli esseri umani di pensare consapevolmente, di essere auto-riflessivi e auto-determinati. Essa implica la possibilità di deliberare, giudicare, scegliere ed intraprendere differenti corsi di azione, sia nella vita privata che in quella pubblica” (HELD 1997: 416). “Un essere autonomo ha le capacità di sottrarsi al proprio passato, rifiuta di essere strettamente determinato. Padrone di sé, può modificare la legge istituita e darsene un’altra” (Lévy 1999: 90). Il cittadino autonomo è in grado di agire responsabilmente ed è compito dello Stato sostenerlo finché non sia pervenuto a questo essenziale traguardo, soprattutto accertandosi che egli possa effettivamente esercitare i suoi diritti democratici. La democraticità di uno Stato che non fosse in grado di formare cittadini democratici sarebbe illusoria. Infatti, “una democrazia senza qualità individuali apre la strada ai demagoghi” (ZAGREBELSKY 2007: 19).
In un sistema DD, gli individui sono lasciati pienamente liberi, sia pure nei limiti di non arrecare pregiudizio ad altri, liberi perfino di non conformarsi al sistema sociale vigente e di disubbidire alle norme etiche correnti, fino all’obiezione di coscienza. “La disobbedienza – scrive Oscar Wilde – per chiunque conosca la storia, è la virtù originale dell’uomo. Con la disobbedienza il progresso è stato realizzato; con la disobbedienza e con la rivolta” (1993: 25). “Storicamente”, ricorda Howard Zinn, “i fenomeni più orribili – guerra, genocidio, schiavitù – non sono stati conseguenze della disobbedienza, ma dell’obbedienza” (2003: 244). In linea con queste posizioni, un governo democratico chiede ai suoi cittadini non di essere ubbidienti e sottomessi, ma solo di essere se stessi nel rispetto degli altri, e guarda la disubbidienza con attenzione e interesse, mentre considera l’ubbidienza un valore di secondo livello.
Una volta riposta la fiducia nelle capacità dell’individuo e preso atto che queste capacità non sono innate, ma devono essere coltivate, lo Stato DD dovrà mettere in opera tutti quei servizi (primi fra i quali l’informazione e la scuola) da cui dipendono le competenze della persona.

1.4. Individualismo e DR

1.4.1. Scarsa fiducia nel cittadino
Giovanni Sartori, che è un convinto assertore della DR, ci offre una metafora molto significativa, che ha per protagonisti la «macchina», ossia il sistema DR, e i «macchinisti», ossia i cittadini. Secondo lo studioso, la macchina va bene, i macchinisti no. “I macchinisti sono i cittadini, e non sono un granché. Però la macchina è buona. Anzi, di per sé è la migliore macchina che sia mai stata inventata per consentire all’uomo di essere libero e di non essere sottoposto alla volontà arbitraria e tirannica di altri uomini. Per costruire questa macchina ci abbiamo messo quasi duemila anni. Cerchiamo di non perderla. Io non credo che la democrazia richieda importanti innovazioni strutturali. Sono preoccupato dai macchinisti” (2008: 99-100). Questo è lo spirito DR: ammirazione per il sistema rappresentativo, bassa stima per gli uomini, che poi si traduce in una mancanza di fiducia. La DR ritiene che, come i bambini hanno bisogno della figura paterna, allo stesso modo i cittadini hanno bisogno di un tutore che decida per loro e li guidi in modo autorevole, affinché non abbiano a farsi del male o commettere sciocchezze. Il cittadino-bambino è, per definizione, inidoneo ad assumersi responsabilità politiche e l’unica prerogativa che si è disposti a concedergli è quella di scegliere i capi da cui vuole essere comandato, attraverso il suffragio.

1.4.2. Alle origini del nazionalismo
All’individualismo la DR preferisce il principio di appartenenza (l’essere ebreo, arabo, italiano, padano, cattolico, berlusconiano, e via dicendo), che rischia di erigere barriere culturali e alimentare ingiustificate idee preconcette di superiorità di un gruppo rispetto ad un altro. Infatti, se l’essere ebreo, arabo o italiano fosse indifferente, ne deriverebbe la scarsa importanza della distinzione stessa. Nessuno direbbe orgogliosamente «io sono italiano» se pensasse che la sua «italianità» fosse equivalente a qualsiasi altra etichetta di appartenenza. Chi ostenta la propria nazionalità («io sono italiano»), in fondo crede che l’essere italiano gli conferisca una qualche superiorità nei confronti di chi italiano non è. A maggior ragione, se la mia italianità mi facesse sentire inferiore, avrei interesse a dichiararla il meno possibile, oppure farei di tutto per non essere italiano: per esempio, cambierei lingua e paese. Se le etichette d’appartenenza fossero ritenute indifferenti, non esisterebbe il tifo per la squadra del cuore, né l’orgoglio di far parte di un club, una chiesa, un comune, una nazione. Il tifo e l’orgoglio d’appartenenza sono alimentati dall’indefettibile desiderio di confermare e rafforzare il nostro sentimento di superiorità, che è aprioristico e indipendente dai nostri effettivi meriti, e che, oltre ad ostacolare la democrazia, genera la volontà di dominare gli altri e giustifica l’intolleranza, gli armamenti e la guerra.
Come osserva Alain Touraine, “Il nazionalismo è molto distante dalla modernità ed è pericoloso per la democrazia per due motivi. In primo luogo, perché il suo potere si esercita dall’alto verso il basso, quindi in maniera opposta all’esercizio del potere democratico. In secondo luogo, perché sostituisce alla complessità dei rapporti sociali una pura affermazione di appartenenza che si definisce, più che per il suo contenuto, per la natura dei suoi avversari. I diversi nazionalismi hanno fortemente contribuito a distruggere la società imponendole una logica di guerra e una divisione del mondo in amici e nemici che ne blocca il funzionamento” (2008: 81).

1.4.3. Il poliarchismo
La massima espressione di pluralismo concepibile dalla DR è il «poliarchismo», ovverosia il riconoscimento di una “pluralità di organizzazioni relativamente autonome” (DAHL 2000: 38), come i sindacati, i partiti e le imprese, che si confrontano e competono. A ben guardare, però, questa poliarchia altro non è che la reinterpretazione in chiave moderna della vecchia legge del più forte. Secondo J.H. Kaiser, infatti, le istituzioni DR “sono originariamente organizzazioni di lotta” e, benché la lotta che essi praticano non è una guerra aperta, tuttavia, non di rado, “può provocare per la nazione il pericolo di una guerra civile latente” (1993: 250). Si investe molto sulle istituzioni e poco sulle persone, con la conseguenza che il poliarchismo DR prende il posto dell’individualismo DD.

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