Lo sappiamo tutti: senza partecipazione è inutile parlare di democrazia. “L’opportunità di partecipare al processo decisionale è uno degli impegni sociali fondamentali e si colloca al centro dei dilemmi sociali odierni” (Sen 1997: 83). Sul fatto che la partecipazione sia essenziale per la democrazia credo vi sia una condivisione ampia. Quello invece intorno a cui le opinioni sicuramente divergerebbero è il tipo e la misura della partecipazione. Si può partecipare semplicemente apponendo periodicamente il segno di una croce su un simbolo in una scheda elettorale, oppure si può partecipare ai pubblici dibattiti e ai processi deliberativi della comunità locale, intervenendo direttamente in tutte le questioni di proprio interesse, senza delegare alcuno e assumendosi ciascuno le proprie responsabilità. Sotto questo aspetto, DD e DR ci offrono due modelli ben diversi.
3.1. Il principio di partecipazione DD
“Appena qualcuno dica degli affari di Stato: «E che me ne importa?», si deve far conto che lo Stato sia perduto” (Rousseau, Contratto sociale III, 15). Queste parole potrebbero costituire un ottimo slogan della DD. Secondo Aristotele, il cittadino “non è definito da altro che dalla partecipazione alle funzioni di giudice e alle cariche” (Pol. III 1, 1275a), “perché è alla stregua di un meteco chi non partecipa agli onori” (Pol. III 5, 1278a). “L’ideale della democrazia non è l’elezione dei rappresentanti, ma la partecipazione della maggior parte del popolo alla vita della città” (Lévy 1999: 77). Il disinteresse dei cittadini uccide la democrazia, perché, come ben osserva Mises, “Democrazia significa autodeterminazione” (1991: 151). Di conseguenza, “una democrazia non potrebbe chiamarsi propriamente tale se i suoi cittadini non avessero il reale potere di essere attivi. E questo potere si determina quando i cittadini sono in grado di godere di una quantità di diritti che gli permettano di produrre una partecipazione democratica” (HELD 1997: 437).
In concreto, la DD si aspetta che i cittadini partecipino attivamente alla vita pubblica, secondo il principio che «tutti possano decidere di tutto». Tuttavia, il fatto che tutti «possano» non significa che tutti «debbano». La DD tiene conto degli interessi e delle competenze di ciascuno e non pretende che tutti decidano su tutto, ma si accontenta della partecipazione solo di coloro che si sentono sufficientemente interessati e competenti nei confronti del tema che, di volta in volta, è in discussione. Insomma, “la partecipazione è volontaria e va incoraggiata e coltivata, non imposta” (GINSBORG 2006: 127). La democrazia, dunque, “non consiste nel numero di persone che scelgono di partecipare ai processi decisionali, ma nel fatto che esse abbiano l’inalienabile possibilità di farlo, di scegliere se decidere o non decidere su questioni di pubblico interesse” (BOOKCHIN 1995: 493). L’importante è che non siano altri a decidere al posto di coloro che si sentono in grado di decidere da sé e hanno la volontà di farlo.
Il vero astensionismo è la mancata partecipazione politica dei cittadini che si ritengono competenti. Esso è letale per la DD. Sembra improbabile, tuttavia, che questo fenomeno abbia a manifestarsi in forma rilevante in un contesto politico altamente stimolante, nel quale il contributo di ciascun cittadino sia ritenuto importante. Già Tocqueville, infatti, aveva notato che i cittadini americani si accostavano di buon grado alla politica, proprio perché potevano prendere parte attiva alle decisioni pubbliche della propria città. “L’abitante della Nuova Inghilterra – scrive il Nostro – si affeziona al suo comune, poiché esso è forte e indipendente; vi si interessa perché concorre a dirigerlo; lo ama perché non ha da lagnarsi della sua sorte; mette in esso la sua ambizione e il suo avvenire; si mescola ad ogni piccolo incidente della vita comunale; in questa sfera ristretta che è in suo potere, egli si esercita al governo della società...” (La democrazia in America, I, 5).
Dobbiamo aggiungere che «partecipare» in democrazia non significa semplicemente essere presenti, ma essere parti attive, tenersi informati, contribuire al processo deliberativo e assumersi le proprie responsabilità o, come dice Piero Calamandrei, avere “uguale possibilità di partecipare alla vita politica” (1995: 153). La partecipazione e la responsabilità si condizionano e si incrementano a vicenda. “Senza partecipazione non c’è il senso della responsabilità” (LUTTWAK, CREPERIO VERRATTI 1996: 76) e senza responsabilità la partecipazione, più che inutile, potrebbe rivelarsi dannosa.
3.2. Il principio di partecipazione DR
“La partecipazione democratica dovrebbe essere efficace, diretta e libera: la partecipazione popolare nelle democrazie anche più progredite non è né efficace né diretta né libera” (Bobbio 1999: 206).
La DR usa i termini «partecipare» e «votare» come sinonimi, lasciando credere che, nell’atto del voto, in realtà i cittadini stanno partecipando attivamente e responsabilmente al processo politico. Questo è bastato per indurre molte associazioni di cittadini ad impegnarsi in una lotta secolare, che è approdata al riconoscimento del suffragio universale, il che è stato salutato come il segno tangibile di una democrazia pienamente realizzata e come una ragione sufficiente per porre fine alle lotte. La conseguenza è che oggi “La maggior parte dei cittadini in tutti i sistemi politici compie essenzialmente un solo atto di partecipazione politica: vota, e nulla più” (PASQUINO 2007a: 11). Il problema sta nel fatto che «votare» non è necessariamente la stessa cosa che «partecipare attivamente e responsabilmente», e, poiché la partecipazione attiva e responsabile dei cittadini è un requisito essenziale della democrazia, ne consegue che il voto da solo non fa democrazia o, detto in altri termini, la democrazia non può essere ridotta al diritto di voto o al voto stesso. Occorre, tuttavia, distinguere due tipi di voto profondamente diversi fra loro: un voto di delega in bianco e un voto di responsabilità o deliberativo.
Quando il signor Rossi appone il segno di una croce sul simbolo di un partito stampato su una scheda, egli sta semplicemente trasferendo la sua sovranità a qualcun altro che lo dovrà rappresentare, che oggi è designato dal partito stesso, ma che potrebbe essere designato dallo stesso interessato, senza con ciò cambiare radicalmente la natura della rappresentanza. Nel caso specifico, il voto è dunque una classica operazione di abdicazione ai propri diritti, in virtù della quale il cittadino Rossi cede la sua libertà responsabile ad un rappresentante (chiunque egli sia e da chiunque sia stato designato) e rinuncia a partecipare attivamente nelle decisioni in merito a questioni di interesse generale. Questo tipo di voto è da ritenere antidemocratico, perché nega un fattore essenziale della democrazia, che è quello della partecipazione diretta del cittadino, sia pur nel rispetto del principio della sussidiarietà. Questo tipo di voto è la tomba della democrazia.
Il secondo tipo di voto è quello che lo stesso signor Rossi è chiamato ad esprimere all’interno della propria comunità locale tutte le volte che si dovrà deliberare sulle questioni all’ordine del giorno, come la costruzione di un asilo nido o di una casa per anziani o il rifacimento della segnaletica stradale o l’assegnazione di un incarico. In questo caso il cittadino Rossi sta esercitando il suo diritto alla partecipazione e dunque il suo voto è un atto pienamente democratico.
A seconda della modalità in cui viene espresso, il voto si può anche distinguere in «segreto» e «palese». Entrambi hanno pro e contro. Il primo ha il vantaggio di preservare l’elettore dal rischio di eventuali condizionamenti esterni, ma non può essere revocato; il secondo ha il vantaggio di mettere l’elettore di fronte alle proprie responsabilità, ma al tempo stesso lo espone al rischio di essere influenzato da terzi e, per di più, si presta a operazioni di compravendita.
A causa di queste differenze, i due tipi di voto trovano applicazioni diverse. La segretezza è preferibile nel voto di abdicazione, almeno sotto il profilo della democraticità, perché lascia il cittadino apparentemente libero di scegliere, senza condizionamenti di terzi, anche se si tratta di una pseudo libertà, dal momento che è limitata dalle opzioni previste dai partiti. Il palesamento del voto invece è più indicato nei processi deliberativi, dove ciascun cittadino è chiamato ad assumersi le proprie responsabilità e sarebbe illogico che lo faccia in modo segreto.
Non basta, dunque, il suffragio universale a generare democrazia. “Si proclama comunemente, su pei giornali, che la scheda elettorale è l’arma con cui il popolo può riuscire a governarsi da sé; ma è questa una grande illusione. In realtà, anche col regime parlamentare, cioè col regime della scheda, il popolo non è che governato, e sulla sua volontà piovono dall’alto ogni sorta di restrizioni e di prescrizioni, senza che esso vi abbia avuto mano, senza che neppure abbia avuto modo di saperlo, tale e quale come accadeva nelle monarchie assolute” (RENSI 1995: 133).
Scegliendo di affidare a dei rappresentanti il compito di prendere decisioni di pubblico interesse, senza vincolo di mandato e in modo autocratico, la DR riduce il diritto di voto ad “una pura parvenza” (BOBBIO 1985: 59) e dimostra di essere “ben lungi dal soddisfare i criteri della democrazia ideale” (DAHL 2000: 18). “Oggi – commenta Sabino Acquaviva – sembra che finalmente esistano molte società democratiche ma, come abbiamo visto, non è vero. Si tratta soltanto di società in cui la gente vota (con poco costrutto) e parla liberamente (del poco di cui è in condizione di parlare). E questo in definitiva perché il suo parlare è innocuo per chi domina e comanda” (2002: 141-2).
3.3. Il fenomeno dell’astensionismo
Ora, se osserviamo i vari paesi a regime DR, noteremo che “la partecipazione popolare nelle democrazie anche più progredite non è né efficace né diretta né libera” (BOBBIO 1999: 206). Non è efficace perché non produce risultati sensibili: che votino il 100% degli aventi diritto o il 50%, il risultato politico non cambia. Non è diretta, perché è mediata da rappresentanti. Non è libera, perché è pilotata dai partiti e dalle istituzioni. In altri termini, la partecipazione politica dei cittadini non è né determinante, né necessaria, né democratica. Ciò non incoraggia il cittadino alla partecipazione, ma semmai lo dissuade, lo allontana dalla politica. Il fenomeno dell’astensionismo è emblematico in tal senso.
Oggi è ancora attuale quel che scriveva Giddens dieci anni fa: “Il partito che è cresciuto di più in questi ultimi anni è un partito che non fa affatto parte della politica: è il «non-partito dei non-votanti»” (1999: 35). L’astensionismo è un fenomeno esteso che coinvolge in vario grado tutte le democrazie, persino le più consolidate, come quella degli Stati Uniti, dove raggiunge picchi notevoli specie nell’elezione del Presidente. “Si può calcolare che poco meno della metà di coloro che avrebbero diritto a votare non si registrano nemmeno nelle liste elettorali […]. Poi c’è l’astensionismo, il fatto cioè che solo la metà di coloro che sono registrati si recano effettivamente alle urne […]. La maggioranza dei presidenti americani viene così eletta da un 10-12% dell’elettorato” (DAHRENDORF 2001: 60). Questa prassi viene ritenuta compatibile con la DR, per la quale evidentemente non conta tanto la partecipazione effettiva dei cittadini alla politica e nemmeno la loro competenza, quanto la procedura e la stabilità di governo. Il fenomeno è poco avvertito in Italia, dove vota circa l’80% degli aventi diritto, anche se è doveroso osservare che il 20% di astensione è un valore assoluto di tutto rispetto (sono circa 10 milioni di cittadini).
Cosa spinge un elettore a partecipare o ad astenersi? Di questa questione si è occupata la teoria economica, la quale tende a vedere nell’elettore la stessa persona che ogni giorno va a fare la spesa. “La democrazia potrebbe essere configurata come un sistema analogo al mercato di libera concorrenza, in cui gli elettori sono i compratori che, con il loro voto, acquistano le politiche che preferiscono fra quelle che vengono loro proposte da imprenditori politici che, con la vendita delle loro politiche, acquistano o conservano potere” (Pitruzzella 2006: I, 1 p. 234). Così come il consumatore sceglie in quale negozio andare e quali prodotti acquistare, allo stesso modo, l’elettore valuta se gli conviene o meno di recarsi alle urne e votare questo o quel partito, questo o quel candidato.
È la ben nota teoria, che è stata illustrata nel classico lavoro di Buchanan e Tullock (pubblicato nel 1962) e ribadita in molti altri studi basati sui giochi, i quali hanno comune il fatto di assumere che “l’individuo sia in grado di scegliere tra i differenti esiti dell’azione politica quello che occupa il grado più alto nell’ordinamento corrispondente alla sua funzione di utilità” (BUCHANAN, TULLOCK 1998: 82). Secondo l’approccio economico della politica, che è condiviso tanto dalla DD che dalla DR, “il signor Rossi è la stessa persona che si reca al supermercato e alla cabina elettorale e non vi è alcun motivo per pensare che il suo comportamento sia radicalmente diverso nei due ambiti; al contrario, in entrambe le situazioni egli sceglierà il prodotto o il candidato pensando di realizzare il migliore affare per sé” (SOLA 1998: 751). Insomma, il fatto che un cittadino vada o non vada a votare è una questione di benefici e costi attesi. Perché allora molti si astengono dal voto o presentano scheda bianca?
Secondo Martelli (1999), le remore al voto sono essenzialmente di quattro tipi: primo, la fatica fisica di recarsi al seggio; secondo, la convinzione che il proprio voto sia ininfluente sull’esito delle elezioni; terzo, una sfiducia generalizzata nei partiti politici e negli organi di rappresentanza; quarto, la necessità di documentarsi per poter dare un voto responsabile. Altri studi (Duncan Black, Kenneth Arrow, Antony Downs, William Riker, Mancur Olson e altri), hanno rilevato che l’«attore razionale» può trovare più conveniente non impegnarsi direttamente nelle azioni collettive, preferendo godere del frutto delle lotte altrui, comportandosi cioè come un opportunista o uno scroccone. È il cosiddetto «paradosso della partecipazione».
È un fatto che molti elettori possono ritenere inutile la loro partecipazione quando sanno che i benefici conseguenti ad una partecipazione politica attiva sono poi distribuiti anche fra gli astenuti, purché facciano parte di una certa collettività (OLSON 1983), oppure se sono convinti che il loro voto non è libero (per esempio, perché i candidati sono imposti dall’alto) o non è decisivo se rapportato ai molti milioni di elettori o non incide sostanzialmente sull’esito della consultazione elettorale (per esempio, perché i programmi dei candidati si somigliano e non offrono solo svantaggi o vantaggi). Certo, se l’elettore considera che il suo voto così infinitamente piccolo sarà probabilmente ininfluente ai fini dell’esito della consultazione elettorale, la sua strategia più razionale dovrebbe essere proprio l’astensione. È quello che Donatella Campus chiama “paradosso del voto” (2000: 37), che è più noto come fenomeno del free ride: “poiché il risultato dell’azione collettiva […] è un bene pubblico utilizzabile da tutti a prescindere da chi abbia effettivamente partecipato, l’individuo è indotto a risparmiarsi di collaborare, nella convinzione che, nel loro darsi da fare, gli altri favoriranno anche il suo interesse. Ne deriva che ciascuno aspetterà che a muoversi per primo sia l’altro, e così nessuno fa nulla” (HIRSCHMAN 2003: 104). Il non-voto potrebbe essere perciò una buona strategia in risposta all’effetto massificante del partito e al fatto che la politica è imposta dall’alto. “La massa dei cittadini svolge un ruolo passivo, acquiescente, persino apatico, limitandosi a reagire ai segnali che riceve. A parte lo spettacolo della lotta elettorale, la politica viene decisa in privato dall’interazione tra i governi eletti e le élite che rappresentano quasi esclusivamente interessi economici” (CROUCH 2003: 6). Tutto ciò spiegherebbe perché l’astensionismo sia un fenomeno ragguardevole e in crescita: “la percentuale di persone che dichiarano di non sentirsi vicino a nessun partito è passata dal 20% del 1976 a quasi il 40% nel 1993” (MILLEFIORINI 2002: 79).
Allora, perché il cittadino vota? Secondo Hirschman (2003), il comportamento dell’elettore è motivato da fattori psicologici, dal suo stato emotivo e dai suoi bisogni mutevoli, su cui, evidentemente, giocano fattori diversi dalla semplice valutazione del «peso» del proprio voto, come il desiderio di appartenere ad un’organizzazione partitica o di mettersi al seguito di un leader o di non sentirsi escluso dai giochi che contano, o il semplice senso del dovere, o altri imponderabili fattori che, specie negli ultimi giorni di campagna elettorale, riescono a vincere l’apatia del cittadino. Insomma, senza la bagarre dei candidati e dei partiti e senza la martellante pubblicità dei media, la partecipazione elettorale sarebbe probabilmente molto inferiore alla attuale.
Ciò che è maggiormente preoccupante per la democraticità del paese è il fatto che, come già detto, il più delle volte partecipazione significa voto e null’altro, e che di questo i cittadini non sembrano dolersi. Da un sondaggio eseguito fra gli elettori dei principali partiti in Italia nel 1994 è risultato, infatti, quanto segue: solo il 18% degli elettori di An-Msi, Forza Italia, Lega nord e Ppi chiedono maggiore partecipazione del cittadino alla vita politica. Tale percentuale sale al 23% per il Pds e al 33% per Rifondazione comunista, rimanendo tuttavia minoritaria (CALVI, VANNUCCI 1995: 44). Il problema non si limita solo all’Italia, ma è comune a tutti i paesi a regime DR. Per ovviare al diffuso disinteresse politico, in Olanda sono state promosse iniziative atte a favorire la partecipazione diretta dei cittadini nell’affrontare e risolvere problemi di interesse locale, ma il risultato di queste iniziative è stato deludente, e ciò dovrebbe farci riflettere sul grado di effettiva democraticità della DR in generale.
I rappresentanti sono solo parzialmente preoccupati dall’apatia e dall’astensione dei cittadini e lo sono nella misura in cui questo si traduce in un ridotta autorevolezza dei rappresentanti stessi, ai quali va bene sì che i cittadini non si immischino più di tanto nelle loro decisioni, ma vorrebbero che essi andassero a votare in massa, per renderli forti di un vasto consenso, vorrebbero cioè una partecipazione estesa ma superficiale. Colin Crouch parla di «paradosso della classe politica». Secondo lo studioso, la classe politica “vuole disperatamente che le offriamo sostegno passivo e teme la possibilità che possiamo perdere interesse nelle sue attività, smettere di votarla, non dare soldi ai partiti che la costituiscono, insomma ignorarla. La soluzione intravista è quella di trovare mezzi per incoraggiare il massimo livello di minima partecipazione” (2003: 126).
In realtà questo fenomeno è più rappresentato in Europa che negli Usa. Negli Usa, “votare è considerato un diritto del cittadino decide liberamente […] se e quando esercitare o no, che deve guadagnarsi personalmente registrandosi e che deve preservare andando regolarmente a votare” (PASQUINO 2008: 15). Perciò “ai partiti americani, che la gente non vada a votare non fa né caldo né freddo. Anzi, meno gente vota, meno pressioni ricevono” (BOBBIO 1991: 69). In Italia invece il voto è un dovere (art. 48 della Cost.), il che significa che il voto non è visto come l’espressione della partecipazione libera dei cittadini, bensì come appoggio legittimante alle istituzioni, come fonte del potere politico rappresentativo. Sotto questo aspetto, “la partecipazione serve soltanto, in definitiva, a rafforzare i detentori del potere politico, i quali, appunto, ne approfittano considerando la partecipazione un segnale di legittimazione del potere da loro acquisito ed esercitato” (PASQUINO 2008: 33-4). In entrambi i casi, la conclusione è la stessa, ed è una conclusione amara: la DR, più che una democrazia, è un’oligarchia.
18. Il contratto politico
15 anni fa
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