Norberto Bobbio chiama «diritto» l’”insieme delle norme, o ordinamento normativo, entro cui si svolge la vita di un gruppo organizzato” (1999: 177-8). Su questa falsariga, diciamo che il diritto di un popolo è composto da un complesso di norme che regolano le relazioni dei cittadini e delle istituzioni, pena la minaccia di sanzioni o di interventi coercitivi da parte dello Stato.
11.1. Origini del diritto
Così inteso, il diritto è un’invenzione dell’uomo relativamente recente, che può essere fatta risalire a poco più di quattromila anni fa. Prima valeva la consuetudine o l’autorità personale (dell’anziano, del sacerdote, del giudice, del condottiero, del re), mentre su tutto domina la forza. Ora, se, lungo il corso della storia, il più forte avesse avuto la certezza di rimanere sempre tale, molto probabilmente sarebbe invalsa l’idea di giustizia che aveva Trasimaco e il diritto si sarebbe ridotto alla mera volontà del più forte, avrebbe cioè corrisposto all’utilità e agli interessi della classe dominante. Ma poiché talvolta il caso inverte i valori in campo e accade che sia il più debole a prevalere sul più forte, da qui nasce l’esigenza di addivenire ad una mediazione. Questa mediazione è, nelle società evolute, il diritto.
11.2. Diritto e forza
Per molti secoli, il diritto ha continuato a rispecchiare la volontà del più forte, limitandosi a fare qualche concessione al più debole, quel tanto da poter essere accettato da questo. Col passare del tempo, la posizione di compromesso si è andata facendo sempre più equilibrata, fino a raggiungere la totale parità, almeno sul piano formale, nelle costituzioni democratiche contemporanee.
Prima che il diritto facesse il suo ingresso nella storia dell’uomo, imperava la legge della forza bruta e ad essa spettava l’ultima parola in tutte le situazioni conflittuali. Con l’affermazione del diritto, è avvenuto che ciò che prima era sottoposto alla legge della forza bruta viene regolato da norme o leggi e senza spargimento di sangue.
Ci sono però dei problemi. Per esempio, chi è autorizzato ad esprimere le norme del diritto? E soprattutto, in base a quali principi etici? Il primo problema, lo sappiamo dalla storia, è stato risolto affidando il potere giurisdizionale al più forte (chi ha vinto le guerra o ha ricevuto maggiori consensi). In relazione al secondo problema, non essendoci un’unica idea di giustizia, i casi sono due: una norma di diritto può ispirarsi o ad un interesse generale o ad un interesse di parte (nel primo caso diremo che ha come scopo il bene comune, nel secondo caso, che applica la volontà del più forte). Ora, poiché il potere legislativo è esercitato dalle classi dominanti, ne dobbiamo concludere che il diritto non si esprime in modo equanime per il bene comune, ma tende a privilegiare gli interessi dei potenti. Se guardiamo le cose in questa luce, noteremo che il diritto DR è solo una variante della legge del più forte. Infatti, “Dove non c’è potere capace di far valere le norme da esso poste ricorrendo anche in ultima istanza alla forza, non c’è diritto” (BOBBIO 1999: 178). “Il potere senza diritto è cieco, ma il diritto senza potere è vuoto” (BOBBIO 1999: 186). Così, come acutamente osserva Alvin Toffler, “dietro ogni legge, buona o cattiva che sia, troviamo la canna di una pistola […]. La legge è violenza sublimata” (1991: 56).
Lo scopo del diritto varia a seconda che lo si guarda con gli occhi del più forte o del più debole: il primo vuole il riconoscimento del suo status e la stabilità del suo potere, il secondo si accontenta di poter lavorare in condizioni di sicurezza, il che significa sostanzialmente essere protetto dai ladri, dai predoni e dai nemici esterni. Il diritto risponde ai bisogni l’uno dell’uno e dell’altro, e, al tempo stesso, garantisce la coesione dello Stato stesso, preservandolo dal paventato rischio di disgregazione.
Le norme del diritto possono essere o correlate ad una qualche idea di giustizia (è la posizione del giusnaturalismo) oppure concepite fine a se stesse (è la posizione del giuspositivismo). In ogni caso, esse svolgono la duplice funzione di tutelare i diritti delle persone e di “trovare le migliori soluzioni possibili a tutti i conflitti sociali” (BALDASSARRE 2002: 13), che prima richiedevano l’uso diretto della forza.
11.3. Il diritto come strumento amorale
Il diritto raggiungeva, almeno in parte, gli scopi per cui era nato, ma dava origine ad una società «duale», nella quale si distingueva una minoranza di governanti, che godevano di condizioni di privilegio, e una maggioranza di governati, che non sempre erano adeguatamente protetti dai ladri e dai predoni e, per di più, erano esposti a carichi tributari, talora insostenibili, e alla coscrizione, con pregiudizio per le famiglie e per la vita, ma anche ad angherie e soprusi di ogni genere. A volte, le classi dominanti si rendevano così odiose da indurre i sudditi a mettere in dubbio la legittimità del loro potere e a sollevarsi contro di loro.
Da qui nasceva l’esigenza di migliorare il diritto, al fine di impedire l’accesso al governo a personaggi malvagi o mediocri e di tutelare meglio le famiglie dei lavoratori. L’affermazione della democrazia ad Atene ne è una testimonianza. Ponendo tutti i cittadini in condizioni di parità, la democrazia superava la società duale e creava la società «unitaria», risolvendo così il problema dei cattivi governanti. Ciò tradisce la natura strumentale del diritto, che può dare origine a modelli sociali assai diversi. Infatti, non avendo contenuti suoi propri, il diritto si limita ad esprimere la volontà di persone o di gruppi di persone. Ne consegue che il diritto non è necessariamente giusto, non rispetta tutte le persone, mantiene privilegi, giustifica la disuguaglianza di genere, la schiavitù, l’infanticidio e la guerra. Per millenni il diritto è coinciso con la volontà del sovrano e, solo a partire dal XIX secolo, si afferma lo Stato di diritto o rule of law, con lo scopo di sottrarre la sfera giuridica individuale alla dispotica volontà del re. Ma ciò comunque non cambiava la natura del diritto, che rimaneva strumento amorale. Ora, è proprio l’amoralità del diritto che ha favorito l’affermazione del giuspositivismo, che è ben rappresentato da Hans Kelsen, su cui conviene soffermarci brevemente.
11.4. Il diritto come legge di natura
Secondo Cicerone, il diritto non corrisponde alla volontà del popolo e agli editti dei principi, ma alla legge di natura (Leg. I 16, 44) e c’è da essere contenti che “le nostre leggi si accordino con la natura” (Leg. II 25, 62).
11.5. Il giuspositivismo di Kelsen
Secondo Kelsen, il diritto è un insieme di regole o norme che obbligano “degli esseri umani ad assumere un determinato comportamento in date circostanze” (1994: 3) sotto la minaccia dell’uso della forza. Alla fine, ogni norma del diritto diventa un comando coercitivo. Le norme di legge sono ordinate in modo gerarchico, così che una norma rimanda sempre ad un’altra norma superiore. La norma fondamentale di uno Stato è la costituzione, la quale a sua volta trae la propria validità da costituzioni precedenti, finché, andando a ritroso, si giunge alla prima costituzione, ossia alla norma fondamentale originaria (1994: 116). In definitiva, il diritto kelseniano altro non è che un ordinamento di comandi coercitivi autoreferenziale e autopoietico, che ha valore in se stesso. Si chiama «positivo» da positus, posto, stabilito dalla volontà umana, in opposizione a ciò che invece scaturisce spontaneamente dalla natura. Il d. positivo può essere definito come un insieme di norme codificate e applicate «imparzialmente» da giudici, le cui decisioni (sentenze) vengono fatte osservare sotto la minaccia dell’uso della forza da parte dello Stato. Il diritto positivo è opera dell’uomo e si colloca in un particolare contesto storico. Legge è ciò che stabilisce l’autorità competente. È inutile chiedersi se essa sia giusta oppure no: l’unica cosa che possiamo verificare è se l’autorità che l’ha emanata sia legittima o meno. Tale era l’opinione di Hobbes, Austin, Dewey, Kelsen, e altri (HAYEK 1994: 239-43).
La specificità del diritto non consiste nell’indurre le persone a comportarsi in un certo modo. Infatti, anche la morale e la religione sono in grado di fare altrettanto, minacciando l’una la riprovazione e l’isolamento sociale, l’altra punizioni dopo la morte. La specificità del diritto è il ricorso alla forza. Al diritto, dice Kelsen, ci si piega non perché è giusto, ma perché è imposto con la forza. Infatti, se il diritto fosse giusto, non si avvertirebbe la necessità di impiegare un potente apparato coercitivo a suo sostegno, mentre, tanto più ingiusto è il diritto (o la sua attuazione), tanto più esso richiede l’uso della forza. In altri termini, è solo il diritto ingiusto, o l’applicazione ingiusta di un diritto giusto, che ha bisogno di essere sostenuto con la forza. Secondo Kelsen, la coercizione “è un elemento essenziale del diritto” (1994: 45), così come il diritto è un elemento essenziale dello Stato. Ma perché il diritto è necessario allo Stato? Perché, spiega Kelsen, lo Stato è diviso in gruppi di interesse e, poiché è impossibile che esso sia in armonia con gli interessi di tutti e nemmeno può aspettarsi l’obbedienza volontaria di tutti (1994: 189), deve necessariamente ricorrere al monopolio dell’uso della forza, per imporre a tutti il potere del diritto (KELSEN 1994: 194-5). Così concepito, il diritto ha la proprietà di promuovere la pace sociale per mezzo della forza (KELSEN 1994: 21).
11.6. Il diritto DD
Il diritto DD non si fonda primariamente sulla legge, né sulle istituzioni, né sugli Stati e neppure sul mondo, ma sull’individuo, e il suo scopo ultimo è favorire lo sviluppo psico-sociale della persona, iniziando dalla soddisfazione dei suoi bisogni (il sostentamento, l’istruzione, l’informazione, la salute, la libertà e la sicurezza).
Un diritto che è al servizio dei cittadini dev’essere a loro misura e, dunque, dev’essere semplice e snello, le leggi dovrebbero essere poche e chiare, mentre i giudici, e così pure i membri delle giurie, dovrebbero essere sorteggiati o eletti fra i cittadini comuni dotati di particolari requisiti, di conoscenza certo, ma anche di umanità. A loro si chiederà di emettere, in tempi rapidi e senza tanti tecnicismi, sentenze in accordo con i supremi principi della Costituzione e ben argomentate sotto il profilo umano. In caso di contestazione dovrebbe essere previsto un secondo grado di giudizio. Le pene vendicative, quali sono quella detentiva e di morte, dovrebbero lasciare il posto a pene riparatrici e riabilitative, in ossequio al principio che chi ha deprivato altri non dev’essere a sua volta deprivato, ma deve dare, per compensare ciò che ha tolto.
11.7. Il diritto DR
La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (2000) stabilisce che “La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata” (art. 1) e che “Ogni individuo ha diritto alla vita” (art. 2). Inoltre, l’espressione «ogni individuo», “lascia trasparire, quanto meno sotto l’aspetto formale, una marcata matrice individualistica della Carta” (BIFULCO, CARTABIA, CELOTTO 2001: 142). Eccellenti princìpi di d. possiamo trovare ovunque nelle costituzioni degli attuali paesi democratici. Il problema è che, il più delle volte, si tratta di puri enunciati teorici, se non di pura propaganda.
In uno Stato di diritto, più che la forza bruta, conta la conoscenza delle normative vigenti e l’abilità nel districarsi fra i cavilli della legge. Se la legge fosse semplice, chiara e agile, tutti i cittadini sarebbero effettivamente uguali di fronte ad essa, ma più una legge è articolata e complessa, più bisogna essere abili per potersene avvantaggiare, e questo è il caso più frequente nel nostro paese.
Secondo Stefano Rodotà, viviamo “in una società strapiena di diritto” (2006: 9) e, in effetti, il diritto DR è così farraginoso da richiedere notevoli abilità per venire a capo di questioni anche semplici. Ora, il costo di un avvocato abile non è alla portata di tutti, e ciò si ripercuote negativamente sul principio di giustizia. Almeno questo è quanto avverrebbe negli Usa, dove: “Il diritto alla libertà di parola e di stampa vale se si hanno le risorse per farne uso. Il diritto alla tutela legale è diverso per il ricco e per il povero. Il diritto di non subire persecuzioni e confische ingiustificate è diverso per una famiglia che vive in una villa e per un’altra che vive in una casa popolare o per strada” (ZINN 2003: 273). Lo stesso potremmo dire per l’Italia e, in generale, per tutti i paesi occidentali, dove il diritto è un lusso che possono permettersi solo i ricchi e l’uguaglianza delle possibilità è solo un’aspirazione. Secondo T. Greco, è a causa dell’esistenza di condizioni di ingiustizia cronica che il diritto DR “non può prescindere dall’uso della forza e si fonda sempre in ultima istanza sul diritto del più forte” (2000: 262).
Inoltre, la principale preoccupazione dei paesi DR sembra quella di rispettare più la forma dell’iter processuale che le reali responsabilità dei soggetti, più la procedura tecnica che i principi di giustizia. Ne sono prova i numerosi atti di ingiustizia «evitabili», i più estremi dei quali sono le condanne a morte di persone innocenti in un paese civilissimo come gli Usa, che sono state denunciate da Amnesty International. “Per ammissione delle stesse autorità americane, non esistono nella legge statunitense norme che permettano almeno di minimizzare il rischio di errori nei casi che prevedono la pena di morte” (AMNESTY 1999: 86).
Una caratteristica del diritto DR è che le pene previste dalla legge s’ispirano al principio vendicativo piuttosto che a quello riabilitativo e prevedono anche l’ergastolo e l’esecuzione capitale. Eppure, già dai tempi di Cesare Beccaria (1764), è apparso chiaro che una siffatta concezione del diritto, oltre a non risolvere il problema della criminalità, è barbara.
Un’altra caratteristica del diritto DR consiste nel fatto che, essendo stato concepito per Stati-nazioni, non tiene nel debito conto la globalizzazione. Così, avviene che certi diritti sono riconosciuti in alcuni Stati e non in altri e chi se lo può permettere può ottenere un diritto che è negato nel suo paese, semplicemente recandosi in un altro paese. Sono le cosiddette “forme di turismo dei diritti di cui possono avvantaggiarsi soltanto gruppi di privilegiati” (RODOTÀ 2006: 57).
11.7.1. Un esempio di ordinamento giuridico: l’Italia
La Costituzione italiana stabilisce che la magistratura dev’essere autonoma e indipendente da ogni altro potere (art. 104), così che essa possa svolgere la sua funzione senza condizionamenti esterni e in modo imparziale, nel rispetto del principio democratico «la legge è uguale per tutti». A tale scopo è previsto che i giudici siano soggetti soltanto alla legge (art. 101) e selezionati per concorso pubblico (art. 106), che il magistrato sia inamovibile (art. 107), che vi sia un organo di autogoverno unico per giudici e pubblici ministeri (il Consiglio Superiore della Magistratura) e via dicendo. Così congegnata, la Costituzione dovrebbe garantire i cittadini dagli abusi di potere, ma così non è. Basta leggere il libro di Bruno Tinti, La questione immorale (2009), per rendersi conto di come il potere politico riesca ad eludere i princìpi costituzionali a favore dei rappresentanti e a sfavore dei rappresentati. Ad esempio, i politici possono emanare leggi che depenalizzano “i reati tipici della classe politica” (p. 34), come il falso in bilancio, l’abuso d’ufficio e la corruzione; oppure possono, attraverso la «separazione delle carriere», togliere autonomia e indipendenza al Pubblico Ministero, in modo da poterlo controllare. “Alla fine è evidente che l’obiettivo è quello di trasformare il Pubblico Ministero; da magistrato autonomo e imparziale ad avvocato dell’accusa” (p. 135); oppure possono limitare le intercettazioni telefoniche (p. 163); e via dicendo.
Di norma, i magistrati vengono reclutati in giovane età e fanno carriera per anzianità e previa valutazione del CSM, che è un organo parzialmente politicizzato (TINTI 2009: 178), anche se dispone di un potere indipendente, riconosciutogli dalla costituzione. I trasferimenti e le promozioni dei magistrati, quando non avvengono per anzianità, avvengono “grazie ad accordi fra le correnti e i partiti, che spesso si sostanziano in scambi di favori reciproci” (GUARNIERI 2003: 151), oppure soggiacciono a logiche di potere interne alla magistratura stessa (Livadiotti 2009). Così, alla fine, “l’Italia potrebbe avere il miglior sistema giudiziario del mondo” e invece ne ha uno dei peggiori (TINTI 2009: 47).
In Italia le leggi sono numerosissime e si prestano ad essere interpretate in molti modi diversi, così che se un avvocato trova il cavillo giusto, può evitare ai propri assistiti condanne certe o ottenere forti sconti di pena. I tempi del processo, che già sono resi lunghi dal gran numero di leggi e da infiniti distinguo, si allungano ancora di più a causa dei tre gradi di giudizio che sono offerti dalla legge come segno di massimo garantismo, ma ciò si traduce in maggiori costi e rischi di prescrizioni per decorrenza dei termini. Alla fine, la giustizia perde e trionfa la procedura. Nell’ordinamento giudiziario DR, una sentenza, che sia stata formulata nel rispetto delle leggi vigenti, viene accettata, anche se è iniqua. Prendo in prestito da Piero Fassino il caso di uno spacciatore di droga che, nell’arco di sei mesi, è stato arrestato sette volte e tutte le volte, avendo fornito generalità diverse, è stato lasciato libero, sia pure nel rispetto formale della legge (2001: 117).
Occorre aggiungere che l’apparente garantismo offerto dai tre gradi di giudizio finisce per costituire uno strumento di cui possono giovarsi solo gli avvocati più abili e i cittadini più facoltosi, senza nulla aggiungere in termini di giustizia reale. Non c’è alcuna garanzia, infatti, che una sentenza di secondo grado sia più giusta di una di primo. “Insomma – osserva Bruno Tinti – la sentenza successiva, qualsiasi sentenza, anche quella definitiva, non ha un valore intrinseco superire a quella precedente” (2009: 158).
Inoltre, gli alti costi resi necessari da processi così tecnici e lunghi non sono alla portata di tutti, e così avviene che si finisce per penalizzare chi ha minore disponibilità economica, ossia il più debole, ingenerando un sistema intrinsecamente ingiusto. Quello che ne risulta è un sistema giudiziario burocratizzato e particolarmente attento agli aspetti tecnici e formali dell’iter processuale, più che a garantire l’effettivo esercizio dei diritti democratici di ogni cittadino. Il sistema DR è ingiusto perché favorisce disuguaglianze legate a cause sociali e non riconducibili a responsabilità personali e anche perché il corso della giustizia dipende in buona parte da fattori economici.
Vorrei chiarire quanto appena detto con due esempi, che riguardano uno Berlusconi, l’altro la mia persona.
Nel 1994, mentre Berlusconi incassava il consenso di un gran numero di elettori, erano in corso nei suoi confronti alcuni processi giudiziari che, di fatto, sono stati bloccati dal verdetto popolare, perché un’eventuale condanna del premier sarebbe potuta essere interpretata come un mancato rispetto della volontà del popolo sovrano da parte dei giudici. E se non poteva essere condannato, che senso aveva processarlo? Sorvoliamo sul fatto che Berlusconi è stato, in realtà, eletto da una minoranza degli aventi diritto al voto e ammettiamo, per ipotesi, che egli fosse stato eletto da una maggioranza piena o dal popolo intero. Sarebbe bastato ciò a collocarlo al di fuori e al di sopra del diritto? Secondo i princìpi di maggioranza e di sovranità popolare, certamente sì: Berlusconi non avrebbe dovuto subire l’affronto di un processo e, men che meno, quello di una condanna. Con questa logica però dovremmo subordinare il diritto alla pratica plebiscitaria e celebrare i processi in piazza, ma così facendo, dovremmo ammettere l’inutilità del diritto stesso. Se, tuttavia, stabiliamo che in democrazia esistono dei princìpi indipendenti dalla volontà dei cittadini (come quello di uguaglianza di fronte alla legge), allora non si dovrebbe permettere che una maggioranza possa ostacolare il corso della giustizia. In un sistema DD, un Berlusconi sarebbe stato processato senza tuttavia perdere alcuno dei suoi diritti, compreso quello di ottenere una promozione, un riconoscimento o una carica pubblica, salvo poi verificarne la compatibilità del suo ruolo politico con l’esito del processo.
Anno 2000: un’esperienza personale. Mi ero da poco dimesso dall’Ospedale ed ero alla ricerca di un nuovo lavoro, quando mi si prospettava la possibilità di essere assunto presso l’Inail di Udine, a condizione di essere iscritto nella graduatoria del Distretto. Il problema era che il Distretto, proprio mentre il governo faceva pressione sui cittadini perché continuassero a lavorare, anche fino a 65 anni e oltre, si rifiutava di iscrivermi perché avevo appena compiuto 50 anni. Nello stesso Distretto qualcuno mi consigliò di rivolgermi al TAR, suggerendomi di appellarmi alla legge Bassanini, che aveva abrogato i limiti d’età, cosa che feci. Il risultato? A causa di un errore formale da parte del mio avvocato, il TAR non prese nemmeno in considerazione la mia istanza e mi condannò a pagare le spese legali della controparte, ossia dell’Azienda Sanitaria Udinese. Siamo di fronte al classico caso di vizio procedurale, che penalizza chi non sa destreggiarsi adeguatamente in un sistema artatamente farraginoso, dove è necessario disporre di buoni informatori e disporre di risorse adeguate, pena l’esclusione dal diritto. In questo caso, il giudice del TAR non ha ritenuto di dover dare una risposta ad un cittadino che chiedeva solo di lavorare, e ha preferito trincerarsi in un rigoroso rispetto della legge, che lo preserva certamente da ogni critica sotto il profilo formale, ma non lo assolve di certo sotto quello morale. Questa è la tipica logica DR. In un sistema DD, lo stesso caso si sarebbe concluso diversamente, nel senso che al cittadino sarebbe stata concessa l’opportunità di lavorare e l’avvocato imperito sarebbe stato sanzionato, anzi, più precisamente, la questione sarebbe stata affrontata a livello amministrativo, senza scomodare avvocati e TAR.
18. Il contratto politico
15 anni fa
Nessun commento:
Posta un commento