venerdì 28 agosto 2009

2. Il principio di sovranità

Non ha alcun senso parlare di s. per uno che, come Robinson Crusoe, vive in un’isola deserta. Sovranità, infatti, è un termine di relazione e si applica all’interno di contesti sociali in riferimento a individui o gruppi di individui. Sovrano è l’individuo che non deve rendere conto ad altri del suo comportamento, il che può avvenire in ragione di un diseguale rapporto di forza (A è talmente più forte di B che non si sente tenuto a rendergli conto delle sue azioni) oppure in ragione di un diritto riconosciuto dalle parti (ciascuno è sovrano in casa propria). Tipicamente, il principio di forza prevale nelle società primitive, il diritto nelle società complesse e negli Stati.
Di norma, le ragioni della forza e del diritto non valgono nei rapporti parentali e di buon vicinato, come sono quelli tra madre e figlio e fra amici di vecchia data. In condizioni di scarsità estreme, tuttavia, tanto la forza del diritto che quella del legame parentale o amicale si possono indebolire a tal punto da riportare in primo piano la legge del più forte. Insomma, quando è in gioco la sopravvivenza personale, il più forte mangia, gli altri soccombono: questa è la legge sovrana che regola i rapporti fra gli uomini.

2.1. Aspetti antropologici della sovranità
Nelle società familiari ogni individuo è sovrano perché può comportarsi in modo libero ed autonomo, sia pure nella misura in cui glielo consentono le sue abilità e la sua forza o che non gli è impedito dai legami parentali e di prossimità: l’unico limite a questa sovranità è quello di trovarsi di fronte qualcuno più forte di sé o troppo amato.
Nei gruppi più estesi è improbabile che un individuo singolo possa esercitare pienamente la propria s., perché quasi sempre la forza del numero è superiore a quella di qualsiasi individuo singolo. Si spiega quindi perché, normalmente, la s. viene attribuita al gruppo considerato nel suo insieme (famiglia, clan o tribù) o a qualche ente superiore esterno al gruppo (una divinità).
Ora, nel momento in cui molte tribù si uniscono in un sol popolo e fondano uno Stato, con tanto di istituzioni e un sistema di leggi, la sovranità passa dai precedenti soggetti (tribù, clan, famiglie) allo Stato medesimo, ma anche in questo caso, si tratta di una s. fondata sul principio di forza. Anche lo Stato, infatti, si comporta in modo sovrano nella misura in cui glielo consentono le sue abilità e la sua forza. Nemmeno l’avvento dello Stato, dunque, modifica il rapporto sovranità-forza.

2.2. La sovranità degli antichi
Aristotele lo aveva detto in modo chiaro: “nelle democrazie sovrano è il popolo” (Pol. III 6, 1278b). Me ben presto questo principio è stato dimenticato e, per molto tempo, gli uomini hanno attribuito la s. ad un dio o, ma solo di riflesso, ad una figura umana, come un sacerdote, un profeta, un monarca. Si riteneva che tutti gli eventi della storia accadessero perché tale era la volontà sovrana di un dio o di un suo rappresentante umano o del destino. Ancora nel medioevo le popolazioni si muovevano all’interno di un ordine sociale ritenuto immutabile ed eterno e non si avvertiva il bisogno di un principio di sovranità del popolo (Marsilio da Padova ha affermato l’idea di sovranità popolare, ma il suo pensiero era alquanto isolato).

2.3. La sovranità dei moderni
Il concetto di sovranità nazionale, intesa come autorità suprema del popolo, è “un’invenzione occidentale” che si è sviluppata con le teorie contrattualistiche e giusnaturalistiche del XVI-XVII sec., le stesse che sono alla base dello Stato moderno e dell’istituzione monarchica per volontà popolare. Quest’idea di s. ha, come scopi dichiarati, quelli di conseguire l’unità nazionale e la pace interna, da un lato (se siamo un sol popolo, dobbiamo rispettarci e osservare le leggi dello Stato), e difendersi in caso di pericolo, dall’altro (se siamo un sol popolo, dobbiamo combattere uniti ove un nemico esterno dovesse attaccarci).
Secondo Domenico Fisichella (1996: XII-XVI), si possono distinguere tre diverse concezioni della sovranità: una sovranità nazionale, che appartiene di fatto ai rappresentanti del popolo; una sovranità popolare, che appartiene a tutto il popolo, il quale la esercita direttamente; un rifiuto della sovranità. Oggi, la concezione prevalente è quella della sovranità nazionale, che può essere intesa in due modi distinti: il primo guarda all’esterno ed è riconducibile al principio di forza (uno Stato è sovrano entro i limiti consentiti dal suo apparato militare); il secondo rientra nell’ambito del diritto interno (uno Stato è sovrano entro i limiti stabiliti dalla sua stessa legge). A sua volta, la legge può essere suddivisa in due sottogruppi, a seconda che essa sia considerata di provenienza esterna (la cosiddetta legge naturale o divina) o una semplice emanazione del popolo (legge positiva). Nel primo caso, si creano le premesse per la creazione di governi autocratici o di tipo DR; nel secondo caso, invece, si potranno avere governi DD.

2.4. Il principio di sovranità DD
I più convinti assertori della DD parlano di una sovranità popolare effettiva e diretta. Uno di questi è Pont: “Il principio che sta alla base della democrazia diretta e che la differenzia dalla democrazia rappresentativa è l’esercizio diretto della sovranità da parte del popolo, e dunque l’eliminazione della delega di potere sovrano, e l’impiego di strumenti limitati di delega esclusivamente sul piano dell’esecuzione tecnica dei voleri e delle decisioni assunte dal popolo” (2005: 147). Secondo Schiavone, “Il popolo deve avere i mezzi istituzionali e procedurali per rendere effettiva la sua partecipazione, il suo ruolo sovrano” (1997: 203). Seyla Benhabib precisa: “Sovranità popolare significa che tutti coloro che sono pienamente membri del demos hanno il diritto di avere voce nella definizione delle leggi attraverso le quali il demos deve governare se stesso” (2006: 16). Il messaggio non può essere più chiaro: la s. appartiene al popolo, sia di diritto che di fatto.

2.5. La sovranità del cittadino
Il popolo sovrano! Mai un’espressione è stata così abusata, ma si tratta di un’espressione equivoca, tanto da risultare quasi vuota. “«Popolo» – scrive Norberto Bobbio – è un concetto ambiguo... Le decisioni collettive non le prende il popolo, ma gli individui, tanti o pochi, che lo compongono” (1992: 116). È meglio dunque precisare: il popolo è sovrano solo nella misura in cui lo si intende formato da tutti i cittadini sovrani, uno per uno e nessuno escluso. Oggi questa tesi è autorevolmente sostenuta da più di uno studioso. “La democrazia moderna riposa sulla sovranità non del popolo ma dei cittadini” (Bobbio 1992: 129). Secondo Schiavone, “la sovranità popolare è di tutti i cittadini, di diritto e di fatto” (1997: 204). “La democrazia – scrive Touraine – è l’affermazione assoluta non della sovranità popolare, indistinguibile dal potere assoluto dello Stato, ma del diritto di ciascuno all’individuazione, e dunque alla soggettivazione” (1998: 265). Prima di costoro, era stato Norberto Bobbio ad affermare che, in democrazia “la sovranità non è del popolo ma dei singoli individui, in quanto cittadini” (1999: 331) e, prima ancora di Bobbio, lo aveva notato H. Kelsen: “Ma che cos’è questo popolo? Una pluralità di individui, senza dubbio” (1995: 58). E allora ci si potrebbe chiedere: “Alla fine del XVIII secolo, la sovranità passò da Dio alla nazione. Risiederà d’ora in poi nell’individuo?” (RAMONET 2003: 133). La DD risponde affermativamente. “Quando ci si riferisce alla democrazia, specie nella sua ipotizzata dimensione di democrazia diretta […], si tende a concepire i singoli come sovrani” (DUSO 1999: 171).
La DD afferma che la sovranità appartiene ad ogni singolo cittadino che sia in grado di pensare con la propria testa e di assumersi responsabilità, e anche lo voglia. L’autonomia di giudizio e la volontà di servirsene, questo è il potere sovrano del cittadino democratico, non il voto. I cittadini che non sanno o non vogliono usare la propria testa, devono necessariamente appoggiarsi a qualcun altro, ad una guida, ad un rappresentante, ad un delegato, ma, così facendo, essi alienano, per necessità o per libera scelta, la propria sovranità. Questo concetto di s. individuale evoca l’immagine biblica dell’uomo-figlio-di-Dio e l’idea cristiana di persona. “Dire che qualcuno è una persona, vuol dire che ha il suo valore in se stesso; che ha dunque il diritto di svilupparsi liberamente; che non è naturalmente subordinato a nessun altro” (LECLERCQ 1965: 50). Come persona, l’uomo (e anche la donna) è “padrone del proprio destino, sovrano nel senso che decide della sua vita e ne decide da solo” (ivi p. 51).
L’individuo può essere ritenuto sovrano per tre ragioni: primo, perché non c’è alcuna giustificazione al fatto che un qualsiasi essere umano sia considerato pregiudizialmente inidoneo ad assumersi responsabilità politiche; secondo, perché è impossibile rilevare differenze qualitative aprioristiche tra gli individui (i bambini nascono uguali e il loro potenziale di sviluppo psico-fisico oscilla entro limiti contenuti); terzo, perché l’alternativa al principio di sovranità individuale sarebbe la sovranità di gruppo, che, come avremo modo di vedere, è ben più pericolosa. Beninteso, qui non stiamo parlando della s. di cui godeva l’individuo nel famigerato stato di natura e che aveva a che fare con il principio di forza. Qui stiamo parlando di un diritto politico, che l’individuo acquisisce solo attraverso un’adeguata opera educatrice. Ebbene, uno dei compiti primari di uno Stato DD è quello di prendersi cura della formazione dell’individuo allo scopo di farne un cittadino democratico, libero, autonomo e sovrano, e, quando sia riuscito in quest’impresa, si potrà dire che avrà svolto quasi interamente la sua funzione.
La DD è l’unica forma di governo disposta a riconoscere la sovranità a ciascun individuo, in accordo col principio che “se tutti gli uomini, meno uno, avessero la stessa opinione, non avrebbero più diritto di far tacere quell’unico individuo di quanto ne avrebbe lui di far tacere, avendone il potere, l’umanità” (MILL 1997b: 20). In democrazia, è l’esercizio della sovranità che fa dell’individuo un cittadino, e un cittadino non può rinunciare alla sua sovranità senza perdere il suo status di soggetto politico. Infatti, come dice Rousseau, “la sovranità non può essere rappresentata, per la ragione stessa che non può essere alienata” (Contratto sociale III, 15). Rispetto al filosofo ginevrino, che identifica la s. con l’astratta e ambigua «volontà generale», la DD oppone la più concreta «volontà individuale».
Secondo Sartori, il potere sovrano dell’individuo è così piccolo che “svapora nel nulla” (2008: 21), quindi può essere alienato senza alcun rimpianto. La DD invece crede che, per quanto piccolo sia, esso è tutto il potere che abbiamo, il solo che ci rende uomini adulti, e perciò ci invita a non barattarlo per qualsiasi cosa al mondo, a non cederlo nemmeno per un attimo e per nessuna ragione, a tenerlo sempre stretto e a farlo valere nella sfera pubblica, perché, nel momento in cui vi rinunciamo, verremmo inevitabilmente manovrati come fantocci da altri. La democrazia si fonda proprio su questa volontà di ciascun cittadino di non alienare la propria fettina di sovranità e, se questa volontà manca, la democrazia è persa; se questa volontà c’è, tutti gli altri diritti democratici verranno di conseguenza.
La DD vuole convincerci che non ci sono valide ragioni per rinunciare alla nostra, sia pur microscopica, sovranità o per ritenerci incapaci di partecipare responsabilmente alla politica. Questa convinzione è avvalorata da una ricerca condotta in Svizzera, dalla quale è emerso che dal 40% al 70% dei cittadini “sono in grado di prendere una decisione consapevole” (KRIESI 1994: 73), soprattutto per ciò che attiene le questioni pratiche e legate alla vita quotidiana (come i problemi del traffico, della droga e dell’aborto), meno per le complesse questioni di politica economica. È impensabile che questi valori, già di per sé di buon livello, non siano migliorabili, sia per quanto concerne il numero dei cittadini competenti, sia per l’area di competenza, che potrebbe allargarsi anche alle questioni di natura economica e quant’altro. Ora, se ipotizziamo un 50% di elettori politicamente competenti, vi si potrebbe costruire una democrazia partecipativa? Credo proprio di sì. Prendiamo l’Italia. Il 50% di 50 milioni di elettori fa 25 milioni di elettori. Avrebbe senso che la sovranità fosse esercitata direttamente dalla metà della popolazione adulta? E perché no? Non sono forse più «rappresentativi» del popolo 25 milioni di cittadini rispetto a un migliaio di parlamentari?

2.6. Abusi di sovranità
Rimane una questione aperta: chi ci garantisce che gli individui sovrani non cercheranno di prevaricarsi l’un l’altro? Chi ci garantisce che qualcuno di essi non svilupperà un sentimento di superiorità personale nei confronti di altri individui, tanto da tentare di sottometterli, plagiarli, sfruttarli, farli oggetto di soprusi e violenza? Nessuno può garantirlo. Anche in un sistema DD, gli individui possono odiarsi, farsi una lotta spietata e perfino uccidersi. Tuttavia, quando operano a livello individuale, il sentimento di superiorità e il principio di sopraffazione non generano conseguenze nefaste su larga scala, come avviene invece per la sovranità di Stato. Infatti, la competizione individuale può bensì degenerare in contrasto, animosità, lite, zuffa e duello, ma mai in guerra fra popoli, né singoli cittadini possono costruire armi di distruzioni di massa. L’individualismo democratico non cambia la natura umana e non cancella la malvagità, la stupidità e l’ignoranza dell’uomo. Impedisce però che queste degenerino in atti di intolleranza e violenza di ampia portata, impedisce che l’uomo possa dotarsi di arsenali nucleari e, usandoli, possa consumare l’atto estremo che è quello del genocidio della specie. E non mi sembra un vantaggio di poco conto.

2.7. Il principio di sovranità DR
Si deve a Locke l’idea che la sovranità risiede nella Costituzione, cui anche il re e il popolo devono stare sottomessi.

2.7.1. Sovrano è il Popolo o la Costituzione?
Locke però non spiega perché debba essere la Costituzione il luogo originario della sovranità e non invece gli artefici della Costituzione stessa, ossia il popolo, il re o l’assemblea costituente. In ultimo, infatti, la Costituzione altro non è che un insieme di idee originate nella testa di qualcuno, è il prodotto del pensiero e della volontà di alcune persone e, come tale, essa è parziale e mutevole, non idonea a rappresentare gli interessi di tutti i cittadini, né ad imporsi al di sopra di tutti, come legge universale ed eterna. In realtà, sarebbe più corretto indicare come titolari della sovranità i padri costituenti e, in ultima istanza, il popolo, di cui essi sono membri. Quest’idea di sovranità popolare è ben espressa da queste parole di Fichte: “il popolo è di fatto e di diritto il potere più alto sopra il quale non ve ne sono altri, ed è la fonte di tutti gli altri poteri” (da PORTINARO 2004: 64).
Bisognerà aspettare il Novecento perché il principio di s. popolare venga affermato con forza, anche se in modo poco conseguente e contraddittorio. Le difficoltà nell’applicazione di questo principio derivano dal fatto che il popolo, se con esso intendiamo la totalità dei cittadini di un paese, è costituito da una tale varietà di volontà individuali da rendere praticamente impossibile l’identificazione di un’unica volontà sovrana. Non c’è, e non ci può essere, pertanto, una volontà di popolo, ma solo volontà personali, che, a livello socio-politico (ma solo a livello socio-politico), possono essere raggruppate per categorie sociali, per esempio, i dipendenti dello Stato e i lavoratori autonomi, gli imprenditori e i salariati, i disoccupati e i pensionati, i nullatenenti e i proprietari, e via dicendo.
Dunque, non c’è un solo popolo, ma tanti «sub-popoli» distinti all’interno di un unico Stato, ed è difficile parlare di sovranità di popolo in un contesto sociale così variegato, a meno che non se ne parli solo come principio teorico. E, infatti, “anche le costituzioni democratiche dell’ultimo dopoguerra, per quanto esplicitamente fondate sulla sovranità del popolo, sono ben attente [...] a evitare la soluzione radicale della sovranità del popolo sulla costituzione” (FIORAVANTI 1998: 275). È ben lontana dai costituenti l’idea di una sovranità popolare vera e propria. Essi “non vogliono un popolo direttamente attivo, attore protagonista della politica” (RUSCONI 1999: 17). “Invocato come soggetto fondante la costituzione, titolare del potere costituente, identificato dalle costituzioni vigenti, con varie formule, come titolare della sovranità, il popolo sovrano è poi, per altro verso, sostanzialmente temuto, in mille modi disciplinato, spesso accuratamente messo da parte” (FIORAVANTI 1998: 7). In pratica, il popolo è un sovrano che non esercita sovranità, mentre la Costituzione esercita la sovranità pur non essendo sovrana.
La conseguenza di questo pasticcio è che le Costituzioni svolgono la loro funzione come se non fossero opera umana o come se fossero calate dal cielo ed esprimessero verità sacre e immutabili. Ma, siccome così non è, siccome esse sono opera umana, ecco allora che, progressivamente e inesorabilmente, invecchiano e si allontanano dalla vita reale e dalle norme giuridiche vigenti, che sono in perenne evoluzione. Col passare del tempo, la Costituzione ha sempre più bisogno di essere reinterpretata alla luce degli inevitabili cambiamenti che avvengono nel paese e diventa sempre più evidente che la sua sovranità tende a sbiadire.

2.7.2. Chi esercita la sovranità?
La sovranità è esercitata effettivamente da coloro che, di volta in volta, sono investiti del potere decisionale (i governanti), da soli o insieme a quanti sono in grado di influenzare, in modo determinante, le loro scelte (le imprese produttive e finanziarie, la massa degli elettori, le chiese, gli equilibri internazionali). E questo spiega perché, in tutti gli Stati c’è sempre qualche gruppo (o individuo) privilegiato rispetto a qualche altro: “nell’antichità, il libero cittadino rispetto allo schiavo e allo straniero; nel medioevo, i nobili e quanti potevano esercitare le arti maggiori; nell’età moderna, la borghesia, sulla base del principio di proprietà; a cui s’accompagna, dall’età classica a oggi, l’androcentrismo, il potere del maschio” (SCHIAVONE 1997: 202). Di fatto, sono questi gruppi privilegiati che esercitano la sovranità, e sono gruppi non sempre ben demarcati, il che significa che non c’è un titolare ben preciso della sovranità.

2.7.3 Il paradosso della sovranità
L’art. 1 della Costituzione italiana, pur riconoscendo che il popolo è titolare della sovranità, non lo ritiene all’altezza di poterla esercita effettivamente: “la sovranità popolare viene riconosciuta nel principio, però la si restringe ai soli possidenti o la si delega” (SCHIAVONE 1997: 205). Il paradosso della DR è che essa nega agli individui in carne e ossa quella stessa libertà sovrana che, invece, è disposta a riconoscere ad una persona metaforica, ossia al popolo o allo Stato. Così facendo, la libertà individuale scompare. I cittadini, infatti, “sono liberi soltanto nel loro insieme, cioè nello Stato, chi è libero non è il singolo cittadino, ma la persona dello Stato” (KELSEN 1995: 54). Il riconoscimento della sovranità popolare è, dunque, solo un espediente, in virtù del quale si finisce per negare la sovranità all’individuo, e la si attribuisce al parlamento. Insomma, si è disposti a riconoscere la sovranità popolare, ma solo a condizione che il popolo non la eserciti veramente. Questo è il pasticcio in cui ci ha cacciato la DR.
Ci sono almeno due ragioni in grado di spiegare questo specioso comportamento dei nostri padri costituenti. La prima ragione consiste nella scarsa fiducia sulle potenzialità intellettive dei cittadini e nel timore che, in caso di autogoverno, essi potessero combinare un sacco di guai. Essa è ben illustrata da Giovanni Sartori. “Democrazia – scrive l’insigne politologo – vuol dire, alla lettera, «potere del popolo», sovranità-comando del demos. E nessuno contesta che questo sia il principio di legittimità che istituisce la democrazia. Il problema è sempre stato di come e di quanto trasferire questo potere dalla base al vertice del sistema potestativo. Una cosa è la titolarità, e tutt’altra cosa è l’esercizio del potere” (1997: 89). Di fronte al rischio di un effettivo esercizio della sovranità popolare, Sartori si mostra preoccupato: “anche se i poveri di mente e di spirito sono sempre esistiti – scrive – la differenza è che in passato non contavano – erano neutralizzati dalla loro dispersione – mentre oggi si rintracciano [grazie a Internet e alla televisione] e, collegandosi, si moltiplicano e potenziano” (1997: 109). Il timore è che i cittadini comuni, ossia i “poveri di mente”, come vengono chiamati, avendo accesso a Internet, possano esprimere quello che pensano.
A Sartori i sostenitori della democrazia diretta, i cosiddetti direttisti, sembrano dei matti pericolosi, perché “distribuiscono patenti di guida senza chiedersi se i loro patentati sanno guidare” (1997: 93). Pertanto – conclude drasticamente il Nostro – “chi invoca e promuove un demos che si autogoverna è un truffatore davvero senza scrupoli, o un puro irresponsabile, un magnifico incosciente” (1997: 93). Gli fa eco Schumpeter: “partito e uomini politici di partito sono semplicemente la risposta all’incapacità della massa elettorale di agire di propria iniziativa...” (1994: 269-70). Come dire: il popolo non merita fiducia, la DD è pura follia. Simile è l’argomentazione di Bobbio, ma non identica. “In ultima istanza – scrive lo studioso – i sovrani sono, anche non lo sanno, i cittadini, se pure uti singuli, e quindi con un potere minuscolo perché frazionato” (1999: 428). Tuttavia, prosegue Bobbio, “Proprio perché il potere del cittadino singolo è frazionato deve trovare luoghi più grandi di aggregazione. Questi sono i partiti” (1999: 428). Rispetto a Sartori, Bobbio non si appella alla presunta incapacità dei cittadini di autogovernarsi, ma alla minimalità del loro potere sovrano, che proprio perché è minimo, non ha senso che venga esercitato e rende necessaria la mediazione dei partiti.
La seconda ragione, in grado di spiegare la negazione dell’effettivo esercizio della sovranità popolare, solitamente non viene dichiarata, anche se forse è la più importante. Essa consiste, semplicemente, nella precisa e determinata volontà di mantenere il popolo in una condizione d’inferiorità. È la ragione degli elitisti, degli aristocratici e di tutti coloro che auspicano la società duale, secondo i quali, i «migliori» devono far valere la loro superiorità sulla massa informe della gente comune e devono, solo essi, esercitare il potere dopo averlo conquistato, se necessario, anche con la forza. In questo caso, alla sfiducia nel popolo si sostituisce il disprezzo per la plebaglia, che è ancora più radicale e definitivo. Alla fine, si giunge alla ben nota soluzione di compromesso: detenga pure il popolo la sovranità, purché non la eserciti di fatto. E ciò mette in discussione la democraticità dei nostri paesi.

2.7.4. «Sovranità popolare» non significa democrazia
Secondo Gianni Ferrara, “Sovranità è termine odioso”, perché suppone un sistema di dominio dell’uomo sull’uomo, perché “allude a violenza” e perché “istituzionalizza un privilegio nei confronti dei sottoposti” (2006: I, 1, p. 250). Essa “può trasformarsi in un poderoso strumento per negare le condizioni della libertà e della democrazia” (PALOMBELLA 1997: 47).
Prendiamo il caso dell’Italia, la cui popolazione adulta comprende circa 50 milioni di cittadini accreditati di diritti politici e chiediamoci: chi esercita la s. interna in Italia? E come? Cominciamo con l’osservare che, se la totalità dei cittadini fosse animata dalla medesima volontà, non ci sarebbe nemmeno bisogno di invocare il principio di sovranità interna e nemmeno avrebbe senso parlare di legge, perché sarebbe un’inutile ridondanza. Il fatto è che, in pratica, ciò non si verifica mai e, pertanto, nelle moderne DR, è invalso il costume di associare il principio della sovranità alla maggioranza dei cittadini. Se così è, la volontà sovrana del popolo italiano dovrebbe essere espressa da 25 milioni di cittadini +1. Ma nemmeno questo si verifica in pratica. In pratica esercita il diritto di voto solo una parte degli aventi diritto e, più precisamente, circa il 70%. La maggioranza diventa allora il 50% + 1 del 70%, vale a dire circa 17 milioni e mezzo di cittadini, ed è a questi che si fa riferimento quando si parla di sovranità popolare. Così, 17 milioni e mezzo di cittadini, che in realtà costituiscono una minoranza dell’intera popolazione adulta, possono imporre il proprio volere agli altri 32 milioni e mezzo. In realtà, nemmeno questo è vero. Infatti, se osserviamo bene poi, scopriamo che la sovranità non è esercitata dagli elettori, bensì dai loro rappresentanti. Ne consegue che la sovranità viene effettivamente esercitata da un’esigua minoranza della popolazione.
Il principio di una sovranità nazionale così concepita non ha niente a che vedere con la democrazia, ma mostra evidenti correlati coi tradizionali regimi autoritari che, come si sa, legittimavano il proprio potere sovrano appellandosi ad una presunta volontà divina e lo esercitavano con la forza delle armi. Sennonché, negli ultimi due secoli, è avvenuto che il popolo ha preso il posto di Dio, mentre è rimasto in campo solo il principio di forza, che è appena mascherato dal diritto. Il fatto è che il diritto non può operare nei rapporti fra le nazioni per mancanza di un diritto internazionale, e ciò fa del mondo “un campo d’anarchia, in cui la volontà del più forte deve, alla fine, prevalere” (POZZOLI 1997: 111). Ora, se è vero che “l’anarchia internazionale è incompatibile con la pace” (POZZOLI 1997: 152), ne consegue che la guerra assurge a elemento strutturale delle relazioni tra Stati sovrani, così che, alla fine, il pianeta assume l’aspetto di un potenziale immenso campo di battaglia, dove ogni Stato sovrano è condannato a diventare sempre più forte, se vuole sopravvivere, “deve divorare per non essere divorato, conquistare per non essere conquistato, assoggettare per non essere assoggettato (POZZOLI 1997: 120). In questo mondo DR non c’è posto per un’idea di giustizia globale, né si riesce a realizzare un diritto capace di far convivere armoniosamente duecento Stati sovrani.
In un sistema DR, la maggioranza sovrana si comporta come un essere onnipotente, ma non necessariamente giusta. Essa, cioè, è libera di darsi le leggi che preferisce, anche inique, di scegliersi i capi che preferisce, anche malvagi. Può perfino promulgare un diritto che premia la furberia, il raggiro, l’inganno e l’opportunismo, o eleggere a propria guida un furfante o un assassino. È possibile immaginare una volontà maggioritaria che esalta i disonesti, i ladri, i fannulloni e gli assassini e biasima i virtuosi, gli onesti e i laboriosi, oppure un popolo di briganti, che decide di farsi governare da un super-brigante. La storia, però, ci insegna che dal populismo hanno preso origine governi totalitari, come quelli di Napoleone, Mussolini, Hitler, Franco, Stalin, e tanti altri. Un popolo è libero di affidarsi ad un dittatore, ma, ciò facendo, non può pretendere di essere chiamato democratico. Non è dunque la sovranità popolare a rendere democratico un paese, bensì il rispetto dei fondamentali valori democratici, che sono quelli dell’uguaglianza di opportunità e della partecipazione libera e responsabile di tutti i cittadini.

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