venerdì 28 agosto 2009

10. Il principio di giustizia

Nel secondo libro della Repubblica Platone narra di Gige, un mitico re della Lidia, il quale possedeva un anello che lo rendeva invisibile. Ebbene, se uno fosse dotato di un simile potere, perché mai dovrebbe comportarsi in modo giusto?
Ora, esistono diversi modi di rendere invisibili certe azioni di cui ci si dovrebbe vergognare o a causa delle quali ci si potrebbero aspettare conseguenze spiacevoli. Per esempio, tenerle nascoste o camuffate, intimidire eventuali testimoni o procurarsene di falsi, alterare gli indizi, e via dicendo. Qualcuno potrà dire: ma c’è l’occhio di Dio che tutto vede. E se uno non crede in Dio? Per un ateo non c’è una sola ragione universale che possa imporgli di comportarsi secondo giustizia, fatta eccezione del fatto che viviamo in società e possiamo controllarci l’un l’altro. Ma nemmeno il credente offre garanzie di un comportamento retto e onesto, perché, di norma, le religioni dispongono di strategie di perdono illimitato. Il risultato di tutto ciò è che la giustizia è ampiamente disattesa dagli uomini, tanto che se qualcuno decidesse di comportarsi in modo giusto correrebbe un serio rischio di essere considerato un babbeo.
Il tema della giustizia ha dominato il pensiero degli uomini da tempi immemorabili. Infatti, non solo le grandi religioni sono dominate dal desiderio di giustizia, tanto che qualcuno ha affermato che “senza giustizia, non c’è Dio” (CAHILL 1999: 215), ma anche in ambito laico l’idea di «giustizia» sembra così dolce e suadente da essere desiderata quasi da ciascun uomo. Che la giustizia sia un oggetto di desiderio è dimostrato dal «gioco del negoziato». I giocatori sono due: il primo riceve cento dollari e deve dividerli con il secondo. Se questo rifiuta la parte che gli viene offerta, il denaro deve essere restituito ed entrambi perdono. In teoria ci si potrebbe aspettare che il primo giocatore offra al secondo un dollaro e questo dovrebbe logicamente accettare perché, in caso contrario, lo perde. In pratica si è visto che ciò non avviene: se non gli viene offerta una cifra vicina alla metà, il secondo giocatore non è disposto ad accettare e preferisce perdere la sua parte piuttosto che sottoscrivere una divisione non equa. Questo gioco dimostra che l’uomo è sensibile al principio di giustizia e si oppone all’iniquità. In effetti, senza il senso della giustizia il mondo sarebbe sempre stato, e continuerebbe ad essere, un immenso campo di battaglia, dove tutti farebbero guerra contro tutti e le condizioni di vita sarebbero inaccettabili per chiunque.
Il desiderio umano di giustizia ha indotto molti pensatori, specie in ambito religioso e filosofico, a disegnare e proporre modelli di società giuste, ma le idee da loro espresse sono molto diverse, con la conseguenza che spesso la giustizia si riduce a qualcosa di vago e inafferrabile oppure viene relegata fra le utopie o viene traslata in un fantomatico aldilà.

10.1. Giustizia e risorse
Va subito detto che, comunque la si voglia definire, la giustizia dev’essere posta in relazione a “due assunti di fondo: la scarsità delle risorse e la motivazione egoistica che informa l’agire individuale. Non ci sarebbero questioni di giustizia in una società di risorse abbondanti rispetto alla domanda, né in una società di santi, cioè di perfetti altruisti” (Mangini 1994: 12). In altri termini, se la natura avesse risorse illimitate e inesauribili e se l’uomo non fosse egoista, non avrebbe senso parlare di giustizia.
L’idea di giustizia esprime l’esigenza di trovare un equilibrio, da tutti condivisibile, fra disponibilità di risorse e bisogni individuali, la quale esigenza trova piena soddisfazione solo nel caso in cui la natura produca risorse sufficienti ad assicurare la sopravvivenza di tutte le persone. I fatti dimostrano invece che la natura è capricciosa. Per di più, l’andamento demografico è mutevole e la quantità delle risorse non dipende solo dalla natura, ma anche dall’intervento umano.

10.2. Giustizia e merito
Grazie al loro lavoro e alle loro tecniche, gli uomini possono indurre la terra a produrre più risorse di quanto sarebbe lecito attendersi, ma non tutti gli uomini lavorano allo stesso modo e non tutti mettono a punto tecniche ugualmente efficaci. Si sviluppa così l’idea di merito e una conseguente idea di giustizia: è giusto che migliori abbiano di che sfamarsi e i peggiori soccombino.

10.3. Il ruolo della fortuna
Poi però ci si accorge che la fortuna è in grado di distribuire le risorse in modo non corrispondente al merito e si capisce che l’uomo deve imparare a fare i conti con essa. “La fortuna è un elemento inscindibile dal funzionamento del mercato, al pari dell’abilità” (HAYEK 1994: 325). Da un lato, la fortuna è ingiusta, perché è scollegata dal merito. Dall’altro lato, essa può essere semplicemente la conseguenza di una volontà superiore, per esempio, la volontà di un dio, che interviene nei disegni degli uomini per una qualche ragione, ad esempio, per bilanciare lo spirito di vanagloria che vi si sottende. Sotto questo aspetto, la fortuna può essere intesa come uno strumento di giustizia divina imperscrutabile. Da qui nasce l’esigenza di trovare il modo di opporsi ai capricci del caso e attirare verso di sé la benevolenza della fortuna, per esempio, praticando riti magici o ingraziandosi la divinità con preghiere, sacrifici o culti.

10.4. Una definizione di giustizia
La giustizia può essere considerata come la risultante delle aspettative degli uomini circa il modo in cui dovrebbero essere distribuite le risorse nel rispetto del principio umano del merito, delle misteriose forze della natura, dell’imperscrutabile volontà divina o di una qualche dottrina filosofica. Ora, poiché in nessuno di questi ambiti c’è identità di vedute, ne consegue che non c’è e non ci può essere un’unica idea di giustizia. Presso una comunità di uomini primitivi, essere giusti nei confronti di qualcuno può significare onorare i rapporti di buon vicinato secondo la consuetudine ereditata dai padri, che comanda, per esempio, di non negare al viandante di dissetarsi con l’acqua del proprio pozzo. In un paese civile, essere giusti può significare rispettare la legge. Tuttavia, tanto il rispetto di una tradizione consolidata quanto la rigida applicazione della legge possono essere percepiti come ingiusti. Di qui nasce l’esigenza di temperare il freddo legalismo e di interpretare i valori della tradizione col «buon senso» degli uomini saggi. Ma anche questo «buon senso» è variabile.
Interessante la definizione di giustizia di Denis Diderot: “L’obbligo di dare a ciascuno ciò che gli spetta” (1967: 561). Solo che bisognerebbe specificare, cosa che il filosofo non fa, che cosa spetti all’uomo.
Di norma, ciò che è percepito come ingiusto suscita nelle persone moti di sdegno e di disapprovazione, che talvolta possono degenerare in turbative sociali, tumulti, rivolte e guerre civili. Ebbene, la principale funzione della giustizia è di far sì che questi moti non assumano toni pericolosi per la coesione sociale e di rendere possibili rapporti sociali spontaneamente pacifici e armoniosi, senza dover ricorrere alla forza fisica.
Alla fine, qualunque essa sia, la giustizia si compone di norme, procedure e princìpi che, a seconda dei loro contenuti, consentono di distinguere una giustizia meritocratica, che dà a ciascuno secondo i propri meriti, indipendentemente dalle posizioni di partenza; una giustizia ugualitaria, che garantisce pari opportunità a tutti; una giustizia utilitaristica, che mira a migliorare le condizioni della collettività, anche a discapito di qualche individuo; e via dicendo. A seconda poi che le norme di giustizia siano ritenute opera della volontà umana o di una volontà non umana (Natura, Dio), parleremo di “giustizia positiva” o “giustizia naturale” o divina.
La giustizia può anche essere definita a seconda che essa esiga il fedele rispetto alle norme giuridiche e ritenga giusto ciò che viene fatto in ottemperanza alla legge (giustizia formale o legale o astratta), oppure che sostenga che la libera interpretazione dei fatti debba prevalere sulle fredde e rigide norme di legge (giustizia discrezionale o personale). Nella realtà queste forme difficilmente possono sussistere allo stato puro e, generalmente, ci troviamo di fronte ad una qualche via di mezzo, dove può prevalere la legge formale o la discrezionalità.

10.5. Le teorie della giustizia
Non esiste una giustizia oggettiva, ma esistono tante idee diverse di giustizia. Per l’ebraismo o l’islamismo, giusto è fare la volontà di Dio; per il cristianesimo, la giustizia va ricondotta al comandamento cristiano “ama il prossimo tuo come te stesso”; per il giusnaturalismo una norma è giusta solo se è conforme alle leggi di natura; per il realismo giuridico, il diritto non si fonda su ideali di giustizia, ma su codici di comportamento efficaci che emergono dalla vita vissuta degli uomini; per il positivismo giuridico, o giuspositivismo, la giustizia appartiene all’etica, non al diritto, e una norma è valida non perché è giusta, ma perché è posta da chi ha la forza per farla rispettare.
Qualcuno ha creduto di poter compendiare tutte le possibili forme di giustizia nella regola aurea (“non fare agli altri quello che non vorresti gli altri facessero a te”, oppure “fai agli altri quello che vorresti gli altri facessero a te”), che però ha il difetto di attribuire ad altri quella che è solo un’opinione personale.
La stessa regola si potrebbe riformulare nel modo seguente: «lascia che ciascuno porti a compimento il proprio progetto di vita nel modo che gli è più gradito, badando solo che non arrechi pregiudizio a sé o ad altri». Questa norma ha il vantaggio di essere più vicina allo spirito democratico, ma non è in grado di accontentare chi non è attratto dalla democrazia.
In teoria, ci sono tante idee di giustizia quante persone. In pratica, circolano le teorie degli studiosi che si sono occupati dell’argomento in modo professionale e sistematico. È impossibile, né conveniente, dar conto delle innumerevoli posizioni assunte dai vari pensatori nei confronti dell’idea di giustizia, ma può essere sufficiente menzionarne quante bastano a darci un’idea sullo stato della questione.
Per Trasimaco “la giustizia altro non è se non ciò che giova al più forte” (Platone, Rep. I, 12).
Per Platone è giusta la società dove ciascuno svolga il ruolo al quale è predisposto per natura e dove i più saggi governano (Repubblica).
Per Aristotele giustizia è saper conciliare il rispetto delle leggi con l’equità (Etica Nicomachea V).
Per Grozio è giusto ciò che è conforme alle leggi di natura (Il diritto della guerra e della pace).
Per Hobbes è giusto ciò che deriva dal contratto sociale e agire giustamente è osservare le leggi, purché esse siano state promulgate da un sovrano abbastanza potente da farle rispettare (Leviatano).
Per Locke è giusto lo Stato che rispetta e fa rispettare i diritti degli uomini, che sono naturali e antecedenti al Contratto (Secondo Trattato sul governo civile).
Per Hume la giustizia è un fatto culturale e può essere valutata solo tenendo conto del contesto sociale e delle motivazioni individuali (Trattato sulla natura umana).
Per Kant giusto è la combinazione fra ciò che fonda l’autonomia morale dell’individuo e ciò che consente a questa autonomia di esprimersi liberamente in un contesto sociale e all’interno di uno Stato sovrano. Prodotto di questa combinazione è il celeberrimo imperativo “tratta gli altri come fini e mai come mezzi” (Metafisica dei costumi; Fondazione della metafisica dei costumi).
Per Bentham giusto è ciò che massimizza l’utilità collettiva, intesa genericamente come sensazione soggettiva di felicità, indipendentemente da ogni valutazione oggettiva del bene (Introduzione ai princìpi della morale e della legislazione).
Per Marx è giusto ciò che contribuisce a realizzare il principio «da ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni» (Critica al programma di Gotha).
Per Hayek non ha senso parlare di giustizia morale o sociale, perché la vera giustizia è quella che consegue alle regole del libero mercato (Legge, legislazione e libertà).
Per Kelsen, la norma giuridica si giustifica da se stessa e non in ordine ai suoi contenuti, e giustizia “significa legalità”, ossia semplice osservanza della legge dello Stato (Teoria generale del diritto e dello Stato).

10.6. La Giustizia nel pensiero attuale
Fra gli studiosi che, nell’ultimo secolo, si sono occupati della g., ce ne sono alcuni che hanno esercitato una particolare influenza e continuano ad essere ancora attuali. Uno è Hans Kelsen, sul quale abbiamo appena accennato. Ne ricordo altri quattro: John Rawls, professore emerito alla Harvard University, Robert Nozick, anche lui docente presso l’Università di Harvard, Richard Mervyn Hare, docente all’Università prima di Oxford e poi della Florida e Otfried Höffe, professore di filosofia all'università di Tübingen.

10.6.1. John Rawls
Rawls (1921-2002) parte dalla convinzione ottimistica che i mali del mondo si possano eliminare grazie all’affermazione del principio etico della giustizia, che è definita “la prima virtù delle istituzioni sociali” (1997: 3). Da qui, poi approda a quella che viene chiamata “teoria contrattualista della giustizia” o “teoria della giustizia sociale”, che prende le mosse dal contrattualismo di Locke, Rousseau e Kant, e si oppone all’utilitarismo di Hume, Bentham e Mill. Per l’utilitarismo il bene è prioritario rispetto alla giustizia e il giusto altro non è che la massimizzazione del bene. Al contrario, per il contrattualismo la giustizia è prioritaria rispetto al bene, e il bene è considerato tale solo se rispetta i princìpi di giustizia. Quali sono, dunque, questi princìpi di giustizia?
L’argomentazione del filosofo prende il via dall’ipotetico stato di natura, che egli chiama “posizione originaria”, in cui gli uomini vivevano liberi e indipendenti. Ad un certo punto, questi uomini, rendendosi conto che la costituzione di un ordinamento sociale solidale è per loro vantaggioso rispetto alla vita isolata, decidono di unirsi in società e stipulano fra loro un contratto sociale, in cui si impegnano a cooperare e a scegliere i princìpi e le norme che dovranno regolare le loro interazioni. In quel momento, essi non sanno quale posto potrà toccare a ciascuno di loro in quella società (Rawls dice che sono coperti da un “velo d’ignoranza”).
Il fatto di unirsi in società non toglie che quegli uomini siano individui capaci di libero arbitrio e di autodeterminazione, cioè persone morali compiute e distinte dal sistema sociale che esse stesse hanno generato e, in quanto individui, ciascuno può entrare in contrasto con chiunque altro e con la società nel suo complesso. Quegli uomini sanno che ognuno di loro ha pari dignità morale e che la cooperazione da essi liberamente scelta ha motivo di esistere solo se risulta vantaggiosa e preferibile rispetto alla non cooperazione per ciascuno di loro. Sanno anche che nessuno sceglie di nascere, che la sorte di ciascuno dipende anche dalla fortuna e che “nessuno merita o non merita il suo essere nato in una certa classe, in un gruppo sociale, etnico o razziale, in un sesso piuttosto che nell’altro, in una società piuttosto che in un’altra” (VECA 1982: 53-4). Sono queste le condizioni in cui essi operano le loro scelte.
Secondo il filosofo di Harvard, a nulla serve la democrazia e il progresso portato dal capitalismo se non si tiene conto del principio individualista, già espresso da Kant, che comanda di trattare ogni persona come uno scopo e mai come semplice mezzo, e, pertanto, una società sarà giusta se i princìpi che essa avrà adottato saranno il risultato di una «scelta razionale», che sia tale da ricevere il consenso dei meno favoriti. “Solo il consenso dei meno favoriti conferma la giustificabilità di un assetto base delle istituzioni” (VECA 1982: 55). Ma quali sono i princìpi di giustizia a cui allude Rawls?
“Questi princìpi – precisa il filosofo – sono quelli che verrebbero accettati da persone razionali, che intendono promuovere i propri interessi” (1997: 111), e sono due. Il primo corrisponde alle libertà liberali (libertà politica, libertà di parola e di riunione, libertà di coscienza e di pensiero, libertà di possedere una proprietà personale e di essere preservati dall’arresto arbitrario). Il secondo è quello dell’uguaglianza delle opportunità: “supponendo che esista una certa distribuzione delle dotazioni naturali iniziali, quelli che hanno lo stesso livello di talento e capacità e la stessa volontà di usare queste doti dovrebbero avere anche le stesse prospettive di successo indipendentemente dalla classe sociale di origine” (2002: 50). Per il filosofo, le disuguaglianze sociali possono essere ammesse solo nel rispetto dei due suddetti princìpi e se producono benefici compensativi per i membri più svantaggiati. “L’idea è quella di riparare torti dovuti al caso, in direzione dell’eguaglianza. Per ottenere questo obiettivo dovrebbero essere impiegate maggiori risorse nell’educazione dei meno intelligenti invece che in quella dei più dotati, almeno in un determinato periodo della vita, quello dei primi anni di scuola” (RAWLS 1997: 97). Alla fine, quegli uomini fonderanno uno Stato egualitario e assistenziale, disposto a “prestare maggiore attenzione a coloro che sono nati con meno doti o in posizioni sociali meno favorevoli” (RAWLS 1997: 97).
Anche se Rawls non menziona esplicitamente la DD, in realtà il suo pensiero sembra essere orientato in questa direzione, almeno nella misura in cui concentra la sua attenzione sui singoli individui, che sono fatti oggetto di fiducia e ritenuti pregiudizialmente persone autonome e responsabile, e idonee a partecipare al potere politico. Scrive, infatti: “per noi i cittadini democratici non sono solo liberi e uguali ma anche ragionevoli e razionali, partecipano tutti in uguale misura del potere politico collettivo della società” (2002: 213).

10.6.2. Robert Nozick
La più importante reazione alla teoria di Rawls proviene da un suo collega, Nozick (1938-2002), il quale ha una diversa concezione dello stato di natura: per il primo, lo stato di natura è una condizione iniziale ipotetica di esseri umani razionali liberi ed eguali, per il secondo, un luogo di anarchia dal quale si esce per istituire uno «Stato minimo». Per Nozick, nello stato di natura ogni individuo mira soltanto al proprio utile e non fonda lo Stato civile intenzionalmente e con l’accordo dei propri simili. “Lo stato, dunque, viene inteso come il risultato di singole azioni non coordinate fra loro, ma compiute da individui razionali” (HÖFFE 1995: 399). Rawls parte da una posizione etica di tipo kantiano per giungere a delineare una società giusta che tenga conto della totalità dei suoi membri, Nozick muove invece dai diritti inalienabili dell’individuo, che hanno la preminenza assoluta rispetto a quelli della società nel suo complesso.
Ma ciò che caratterizza maggiormente il pensiero di Nozick è la particolare enfasi posta sul primato dell’individuo nei confronti della società e dello Stato. Al centro della teoria etico-politica di Nozick c’è l’individuo, che è innanzitutto «persona», un essere cioè capace di autogestirsi e di dare un senso compiuto alla propria esistenza e, in quanto tale, ogni individuo deve avere “un pari diritto al riconoscimento del proprio piano di vita” (VECA 1982: 110). L’individuo è unico, irripetibile e sovrano, e pertanto la sua persona non dev’essere usata né in vista di un bene «superiore», che riguardi foss’anche la società intera, e nemmeno per nessun fine se non quelli che essa stessa sceglie. Per Nozick, ci sono solo gli individui con le loro vite individuali, e una società che chiedesse sacrifici, o la vita stessa, a un individuo a vantaggio della «maggior parte», sarebbe una società ingiusta, la quale non tiene conto che quell’individuo è unico e nessun bene è per lui superiore a quello della sua stessa vita.
Alla fine, lo Stato di Rawls è una società democratica, con tutti i poteri connessi, lo Stato di Nozick deve limitarsi ad assicurare la sicurezza dei cittadini, svolgendo un ruolo che richiama quello del «guardiano notturno», e soprattutto non deve esercitare una forza coercitiva nei confronti dei singoli.

10.6.3. R.M. Hare
Hare (1919-2002) costruisce la sua teoria della giustizia sui due pilastri della libertà e della razionalità dell’uomo. Per il filosofo, l’uomo è un essere libero e “uno dei più importanti elementi costitutivi della nostra libertà, in quanto agenti morali, è la libertà di formarci le nostre opinioni intorno ai problemi morali” (HARE 1971: 26). Il secondo punto è che “il risolvere questioni morali è, o dovrebbe essere, un’attività razionale” (HARE 1971: 27). Quello che Hare vuole evidenziare è che libertà e razionalità sono le basi imprescindibili su cui poggia e si sviluppa il pensiero morale. La prima spiega perché noi siamo liberi di formarci le nostre opinioni morali; la seconda invece spiega perché “quando decidiamo, decidiamo in merito a una questione di principio avente implicazioni che vanno al di là del caso particolare” (HARE 1971: 71). Ora, è proprio come prodotto della ragione che i princìpi morali possono acquistare valore universale. Pertanto, “se ritengo di dover fare A in date circostanze, sono tenuto a ritenere che qualunque altra persona che si trovi in circostanze analoghe debba fare lo stesso” (HARE 1971: 109-110). Le questioni morali non sono dunque arbitrarie, ma soggiacciono a precise regole razionali e, di conseguenza, sono universalizzabili. In definitiva, libertà e ragione costituiscono, per Hare, le basi per un’idea di giustizia universale.

10.6.4. Otfried Höffe
Partendo da una posizione critica nei confronti tanto del positivismo giuridico che dell’anarchismo, Höffe (n. 1943) assume una posizione vicina a quella di Rawls. La giustizia, sostiene lo studioso, prende forma nello stato di natura, in cui “vale la libertà di tutti, illimitata, ma selvaggia” (1995: 377); si potrebbe dire che ognuno è sovrano. C’è però un problema: quando due o più soggetti sovrani si incontrano nessuno è sicuro di nulla e anche il più forte deve temere, per esempio, a causa della coalizione di soggetti più deboli contro di lui. Ora, nel momento in cui questi soggetti sovrani decidono di vivere in società, devono necessariamente rinunciare ad una parte della propria libertà, ossia alla libertà di arrecare pregiudizio ad altri. Ma questa rinuncia, in assenza di un sistema di coercizione, rischia di rimanere senza effetto. La coercizione è dunque necessaria. Secondo Höffe, tuttavia, essa non deve essere intesa come un diritto dello Stato contro il cittadino. Il diritto, infatti, è dell’individuo, e lo Stato ne è solo garante. “Al limite, potremo parlare di una sovranità secondaria e sussidiaria, perché l’esistenza dei poteri politici non deriva dalla loro onnipotenza, bensì dalla reciproca rinuncia a dei diritti attuata da coloro che sono sovrani in senso primario e genuino, cioè dagli appartenenti a una medesima comunità giuridica” (1995: 384).
In definitiva, per Höffe quello che conta è l’individuo sovrano, talché, un sistema democratico dovrebbe poggiare sul “libero consenso di ogni singolo” ovvero sull’”accordo di ogni individuo con ogni altro” (1995: 394). Insomma, la sovranità in democrazia non appartiene al gruppo, ma alla persona, e in virtù di tale principio, cento soggetti sovrani non hanno più sovranità di un solo soggetto sovrano. Ne consegue che lo Stato non è più sovrano del singolo cittadino e che nessun monarca è legittimato ad esercitare un potere politico sovrano. “Non sono più gli uomini a dominare i propri simili, bensì i poteri pubblici a dominare l’arbitrio dei privati” (1995: 386).

10.7. Giustizia e Diritto
Giustizia e diritto hanno la stessa funzione: consentire la pacifica convivenza fra gli uomini, favorendo il mutuo rispetto, la solidarietà, la reciprocità, la tolleranza, il perdono e l’equità. Nella medesima direzione si muovono quei princìpi (sanzionatorio, risarcitorio, retributivo, distributivo, compensativo, e quant’altro), che servono a dare l’impressione che una giustizia ferita possa essere in qualche modo ripristinata. Così, “Sia il diritto che la giustizia mirano ad assicurare l’armonia morale, politica, sociale e/o economica all’interno di una società ¬ – distribuendo in modo equo benefici e oneri tra i suoi membri – e a preservare altresì un legittimo equilibrio tra di essi, approntando opportune misure di rettificazione in caso di violazioni” (Rosenfeld 2001: 142).
Il problema è: la giustizia fa parte integrante del diritto? Il diritto è sempre giusto? Diritto e giustizia sono la stessa cosa? Anche qui, le opinioni degli studiosi divergono. Dei princìpi di giustizia possono operare al di fuori e indipendentemente da un ordinamento giuridico. Tale è il caso della società prestatali. Negli Stati, invece, il diritto, da solo, sembra in grado di svolgere le funzioni che ci aspetteremmo dalla giustizia e, dunque, sembra bastare a se stesso. Alcuni studiosi ne hanno tratto la conclusione che è sbagliato invocare una giustizia al di fuori del diritto. “Se l’uomo riesce a creare una società in cui sia abolita l’ingiustizia – scrive Fukuyama – la sua vita finirà con l’assomigliare a quella di un cane. Nella vita dell’uomo c’è però un curioso paradosso: sembra che l’ingiustizia sia necessaria, in quanto è la lotta contro di essa che fa venire alla luce ciò che vi è in lui di più alto” (1996: 325). Per Hayek, «giustizia sociale» “è una frase vuota priva di contenuto determinabile” (1994: 343); è “il cavallo di Troia tramite il quale ha fatto il suo ingresso il totalitarismo” (1994: 346). Ne consegue che il diritto è altro rispetto alla giustizia, e ciò vuol dire che le ingiustizie sociali devono essere accettate perché inevitabili.

10.8. Giustizia e diritti
Non si può parlare di giustizia senza parlare di diritti. La g. deriva, infatti, dalla consapevolezza che le persone sono portatrici di diritti e che lo Stato è preposto alla loro soddisfazione. Ebbene, la g. altro non è che il modo in cui lo Stato tutela e garantisce i diritti delle persone. “La società è tanto più giusta quanti più sono i diritti che i singoli posseggono e possono esercitare” (Mangini 1994: 188).

10.9. Giustizia e Democrazia
Giustizia e democrazia non sono la stessa cosa, ma si somigliano e si integrano, nel senso che la prima è la strada maestra che conduce alla seconda e la seconda alimenta la prima. Alain Touraine suggerisce di sostituire il “principio di sovranità con quello di giustizia sociale” (1998: 260) o coi diritti della persona (ivi p. 267). In sostanza, senza giustizia non può esserci democrazia e dove c’è democrazia dev’esserci necessariamente una giustizia. In democrazia, i princìpi di giustizia non dipendono dalla volontà di una maggioranza (il fatto che la maggioranza possa approvare l’emarginazione delle donne dalla vita politica o l’istituto della schiavitù, non significa che ciò debba essere necessariamente giusto) e, tanto meno, dalla minoranza. I princìpi di giustizia vanno guardati con gli occhi della persona.
Un paese democratico (e quindi «giusto») si può riconoscere dal suo aspetto urbanistico e dalle persone che vi abitano. Se le persone che incontriamo hanno un buon aspetto, sono civili, sanno esprimersi in modo chiaro ed appropriato, se notiamo che le strade sono pulite, le abitazioni decorose, l’urbanistica a misura d’uomo, se tutto ciò che vediamo, oltre ad essere ordinato e decoroso, ha una qualche utilità per le persone e non presenta differenze che possano risultare offensive della dignità umana, possiamo ragionevolmente concludere che ci troviamo in un paese giusto e democratico. Se invece notiamo che l’aspetto urbanistico cambia da un quartiere all’altro, che, accanto ad aree dove sorgono ville grandiose e cattedrali maestose, ci sono aree affollate di condomini che somigliano a formicai, se accanto a quartieri puliti e opulenti, ce ne sono altri sporchi e squallidi, se le persone non sono tutte civili e colte, ma ce ne sono di sporche, trascurate, rozze, incapaci di esprimersi, se alcuni esibiscono oggetti di puro lusso e altri chiedono la carità, se il diritto alle pari opportunità appare vilipeso, se non si rispetta l’ambiente e non si sfrutta appieno il capitale umano, se si notano numerose vittime innocenti della miseria e dell’ignoranza, le quali credono che eleggere un capo sia l’unico rimedio alla loro infelicità, se vediamo queste cose, possiamo sospettare che in quel paese la giustizia non è di casa, e nemmeno la democrazia.
Il 3 marzo 2006, nel programma «Uno Mattina», la giornalista Monica Maggioni ha trasmesso la seguente notizia: si sta diffondendo un modo nuovo di stuzzicare le emozioni, dei ricchi, quello di offrire loro in affitto quadri di grandi autori, per un periodo minimo di due settimane, ad un costo da 30 mila euro. Come possiamo parlare di giustizia quando sappiamo che, proprio mentre il ricco espone compiaciuto il suo quadro, molte famiglie mancano di beni necessari o ritenuti irrinunciabili per una vita appena dignitosa? Un sistema politico che consente un’iniqua distribuzione delle ricchezze è necessariamente ingiusto.
DD e DR ci propongono due modelli di giustizia ben distinti.

10.10. Il principio di giustizia DD
Sant’Agostino affermava che tutte le forme di governo basate sul principio di forza, altro non sono che “magna latrocinia” (Città di Dio, IV, 5), ossia grandi associazioni a delinquere. In accordo col pensiero del vescovo d’Ippona, la DD è convinta che il mondo può e deve essere governato secondo princìpi di giustizia ed equità e che, al di fuori di una tale logica, uno Stato non sia distinguibile da una qualsiasi accolita di banditi. Ma che cosa significa giustizia per la DD?
La DD si propone come il sistema politico giusto per eccellenza, non nel senso che promette la felicità ai cittadini. In una società giusta, infatti, un individuo può essere infelice per una molteplicità di ragioni, per esempio, perché è cagionevole di salute o si sente inferiore ad altri o crede di essere poco apprezzato o sfortunato, oppure perché è depresso, invidioso, incontentabile, e via dicendo. La DD è giusta nella misura in cui si ispira ai princìpi dell’individualismo, che poi sono gli stessi enunciati in qualsiasi Costituzione e si possono riassumere essenzialmente nel riconoscimento delle pari opportunità e della soddisfazione dei bisogni delle persone.
La DD è l’unica forma di governo laico che, ispirandosi a questi princìpi, si adopera perché ciascuno, partendo da condizioni di uguaglianza, possa esprimere al massimo grado il suo talento naturale e coltivare il suo progetto di vita, sia pure entro i limiti previsti dalla legge, ossia nella misura in cui dal suo comportamento non derivi pregiudizio per altri. Giusto è ciò che promuove, o rende migliore, un individuo senza danneggiare un altro.
Così intesa, la g. mal si presta ad essere racchiusa in formule ben definite e statiche, ma è piuttosto un principio dinamico, che segue il divenire della persona. L’ideale di giustizia non è mai dato una volta per sempre. Perciò, come correttamente nota Zygmunt Bauman, “Una società è giusta nella misura in cui è perennemente insoddisfatta del livello di giustizia già acquisito e cerca sempre più giustizia e una giustizia sempre migliore” (2003: 41).

10.11. Il principio di giustizia DR
Ai paesi DR va riconosciuto un merito: l’aver tentato di definire un modello di giustizia valido per un intero popolo o per tutti gli uomini della terra, come risulta dalle Costituzioni e da alcuni documenti internazionali, come la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo da parte dell’ONU (1948) o la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (2001), che proclamano i cosiddetti diritti fondamentali e inalienabili degli individui, fra cui le libertà di movimento, di pensiero, di religione, di espressione, di riunione pacifica, di accesso alla giustizia e di uguaglianza di fronte alla legge dei cittadini, ma anche il diritto al lavoro, alla sicurezza sociale e ad un adeguato tenore di vita, alla tutela della salute, all’istruzione, alla partecipazione politica. È difficile immaginare una giustizia migliore di quella rappresentata da queste Carte. Il problema riguarda semmai il reale rispetto di questi princìpi e l’effettivo esercizio dei menzionati diritti da parte delle persone.
Diverso è il quadro relativo alla situazione internazionale. Il fatto è che lo Stato dispone dei sistemi coercitivi necessari per il rispetto delle norme di giustizia da esso espresse, mentre l’ONU non può dire altrettanto, e così “la giustizia internazionale rimane tuttora una speranza piuttosto che un’effettiva realtà” (CAPPELLETTI 1994: 385). In mancanza di giustizia internazionale, in pratica i rapporti fra gli Stati sono regolati dal principio di forza.

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