Il principio di rappresentanza non proviene dagli antichi, che lo ignoravano. “Nelle antiche repubbliche, e anche nelle monarchie, il popolo non ebbe mai rappresentanti, non si conosceva questa parola” (Rousseau, Contratto sociale III, 15). L’idea di rappresentanza proviene dagli ordini monastici che, dovendo eleggere i propri superiori e non potendo ricorrere né al principio ereditario, né a quello della forza, non poterono fare altro che appellarsi al voto. Da qui la pratica si diffuse nel corso del medioevo e dell’età moderna, divenendo un’“istituzione propria di governi aristocratici o monarchici” (Greblo 2000: 11). La pratica della rappresentanza non nasce, dunque, come principio democratico, ma come un semplice compromesso per assegnare il potere senza ricorrere alla forza.
Col tempo, poi, si sono cominciate a distinguere due tipi di rappresentanza: una rappresentanza vincolata, con mandato imperativo e diritto di revoca, che fa del rappresentante un semplice commissionario; e una rappresentanza libera, senza vincolo alcuno, che lascia l’eletto “padrone del proprio atteggiamento” (Weber 1999 I: 291). Il primo tipo di r. (che chiamiamo di tipo A) è prevalso fino alla Rivoluzione francese. Il secondo (che chiamiamo di tipo B) è stato introdotto dalla costituzione francese del 1791, con l’intento di liberare l’eletto dall’obbligo di dover rappresentare solo una parte del paese: da questo momento ogni parlamentare è chiamato a rappresentare l’intera nazione e dunque viene esonerato da ogni vincolo di mandato.
4.1. Il principio di rappresentanza DD
Come correttamente osserva Bookchin, “il passaggio dalla società allo Stato avviene con l’atto politico supremo: la delega del potere” (1995: 202). “Delegare il potere significa spogliare la personalità dei suoi caratteri fondamentali; significa negare proprio la nozione che l’individuo è competente ad occuparsi non solo della sua vita personale, ma anche del suo importante contesto: il contesto sociale” (Bookching 1995: 207). “Una volta che ho dato a qualcun altro il permesso di prendere delle decisioni per conto mio, per controllarmi costui non dovrà fare altro che rendere note le sue volontà” (Lindblom 1979: 19). Ne consegue che delegare non è democratico. Nemmeno se è prevista la revoca. Secondo Bobbio, “un sistema democratico caratterizzato da rappresentanti revocabili è, in quanto prevede rappresentanti, una forma di democrazia rappresentativa, ma in quanto questi rappresentanti sono revocabili si avvicina alla democrazia diretta” (1991: 47). Va notato il fatto che Bobbio non dice che il diritto di revoca trasforma una DR in una DD, dice semplicemente che avvicina la DR alla DD, senza modificare la natura della DR stessa. E, infatti, il diritto di revoca non cambia la natura del voto, che rimane un voto di abdicazione dei propri diritti e, come tale, non ha nulla a che vedere con la DD. Insomma, sotto il profilo dei contenuti, una DR che dovesse riconoscere il diritto di revoca, rimarrebbe pur sempre una DR.
Per quel che attiene l’aspetto procedurale, va detto che solo il cittadino che abbia votato in modo palese può revocare in modo personale il proprio voto, mentre, per chi abbia votato in modo segreto, l’unica procedura di revoca possibile è quella di ritornare al voto collettivo. Ma come può concretamente un cittadino revocare il suo voto segreto? Per quanto ne so, di norma, si procede in due fasi: prima si raccolgono le firme dei cittadini che intendono revocare il mandato ad un rappresentante, poi, se si raggiunge il quorum prefissato, si passa alla consultazione di massa. Questa procedura ricorda quella del referendum e può essere fatta oggetto di tutte le considerazioni che riguardano questo istituto, sulle quali mi limito a dire che ne ho parlato in un apposito paragrafo.
In conclusione, non è il voto che fa la democrazia, ma la partecipazione libera, competente e responsabile di tutti i cittadini. A queste condizioni, rimane spazio per la rappresentanza in DD? E che cosa è essa veramente?
La DD è vicina al pensiero di Rousseau, secondo il quale, “dal momento che un popolo si dà dei rappresentanti, non è più libero; anzi non esiste più” (Contratto sociale III, 15). Per il ginevrino, il voto è un atto di espoliazione, con il quale il popolo rinuncia ai propri diritti e li cede ai rappresentanti, che andranno a governare in sua vece e a loro piacimento. Un popolo è libero solo nel momento in cui elegge i membri del parlamento; dopo ritorna ad essere schiavo. In questo caso, la DD ripete con Hans Kelsen che, “Per stabilire un vero rapporto di rappresentanza, non basta che il rappresentante sia nominato o eletto dal rappresentato. È necessario che il rappresentante sia giuridicamente obbligato ad eseguire la volontà del rappresentato, e che l’adempimento di questo obbligo sia giuridicamente garantito” (1994: 295). L’unica r. democratica è quella che si fonda sul mandato imperativo (tipo A), e non sulla delega senza vincolo di mandato, e perciò affermare che il popolo esercita il suo potere legislativo solo per delega significa incorrere in una “finzione politica” (Kelsen 1994: 296). Infatti, “se non vi è nessuna garanzia giuridica che la volontà degli elettori sia eseguita dall’eletto, se questo è giuridicamente indipendente dagli elettori, non esiste nessun rapporto giuridico di delega o di rappresentanza” e il parlamento rappresenta lo Stato “in maniera non dissimile da quella di un monarca ereditario o di un funzionario da questi nominato” (Kelsen 1994: 296).
Per Aristotele, la differenza che passa fra un buono e un cattivo governante è che il primo usa il potere per promuovere il bene comune, il secondo per coltivare i propri personali interessi. Tuttavia, se è vero che non si può avere a priori la certezza di essere rappresentati da «buoni» governanti e se assumiamo che ogni cittadino è potenzialmente in grado di esercitare i suoi diritti politici, ne consegue che nessuno ha convenienza a cedere a terzi la propria fettina di sovranità. “I rappresentanti – scrive Denis Diderot – presuppongono degli elettori dai quali deriva il loro potere, ai quali sono di conseguenza subordinati, e di cui non sono altro che i portavoce” (1967: 718). Facendo propria questa logica, la DD ripudia il principio di rappresentanza, se non per incarichi puramente esecutivi e vincolati, che sono affidati, con mandato imperativo e diritto di revoca da parte del popolo, per mezzo di un contratto che preveda la corresponsione di un compenso ove il lavoro sia regolarmente ultimato e delle penali nel caso di mancata osservanza delle condizioni pattuite. Così concepito, il rappresentante assume il ruolo di un agente politico (o, se preferiamo, di un pubblico funzionario o, più semplicemente, di un libero professionista), che lavora su commissione e in modo responsabile. Dico «responsabile» per indicare che il nostro rappresentante s’impegna a rispettare i termini di un contratto e verrà ricompensato solo, e nella misura in cui, avrà onorato l’impegno assunto, e sanzionato nel caso contrario.
Va rimarcato il fatto che la DD non ripudia il voto in generale, ma solo il voto attraverso il quale il cittadino si spoglia della propria sovranità. Tutte le altre forme di voto sono consentite, ma, anziché essere cessioni di sovranità, sono assunzioni di responsabilità. Attraverso il voto, dunque, ogni cittadino esercita la sua fettina di sovranità in merito alla questione dibattuta e, a questo punto, si può giustificare il voto palese, che ha il vantaggio di essere revocabile. Immaginiamo che i cittadini di una comunità locale debbano deliberare sull’apertura di un asilo nido e su chi affidare l’incarico di realizzare il progetto. Si inizia un dibattito aperto a tutti e si stabilisce un termine di tempo, raggiunto il quale, si passa alla votazione, lasciando che i cittadini, ben consapevoli delle conseguenze, scelgano liberamente tra il voto palese e il voto segreto.
4.2. Il principio di rappresentanza DR
Il pensiero politico contemporaneo non ha saputo (o voluto) produrre nulla di meglio che il principio di rappresentanza. Esistono almeno due forme di rappresentanza politica. Quella più democratica è basata sul vincolo di mandato e sul diritto di revoca, che però sono "sistemi assai macchinosi, di incerta effettività e sempre esposti al pericolo di risultare efficaci soltanto nei confronti di interessi lobbistici o corporativi" (Ferrajoli 2007: 166). I nostri sistemi politici DR hanno allora optato per l'altra forma di rappresentanza, che non prevede né vincolo di mandato né diritto di revoca (cf. art. 67 della nostra Costituzione), ma che, proprio per questo, non è effettivamente rappresentativa del popolo. In effetti, "l'idea che gli eletti rappresentino la volontà popolare è una «finzione politica»" (Ferrajoli 2007: 174).
Il principio di rappresentanza poggia sulla radicale sfiducia nelle qualità politiche dei cittadini comuni e sulla “credenza elitistica che solo individui scelti […] sono qualificati per capire gli affari pubblici” (Bookchin 1995: 207)Ma è proprio così? È proprio vero che il cittadino comune è incapace di assumersi responsabilità di interesse pubblico?
Secondo Benjamin Constant, “noi non possiamo più godere della libertà degli antichi, che era fatta della partecipazione attiva e costante al potere collettivo” (2001: 15), e dunque, dobbiamo cedere la nostra personale libertà a dei rappresentanti. “Il sistema rappresentativo – precisa lo studioso francese – è una procura data a un certo numero di uomini dalla massa del popolo, che vuole che i suoi interessi siano difesi e tuttavia non ha il tempo di difenderli sempre in prima persona” (Constant 2001: 31). È da rimarcare che Constant giustifica la cessione della sovranità individuale col fatto che il cittadino non avrebbe tempo sufficiente per curare i suoi affari, lasciando intendere che il cittadino che disponesse del tempo necessario avrebbe tutto il diritto di tenersi ben stretta la sua sovranità. Constant, inoltre, non chiede agli elettori di alienare la loro libertà, ma li invita ad “esercitare una sorveglianza attiva e costante sui loro rappresentanti” (2001: 31), il che tradisce, da una parte, l’inopportunità di riporre cieca fiducia nei rappresentanti, dall’altra, la presunta capacità del cittadino comune di valutare l’operato dei rappresentanti e, dunque, di discernere il bene dal male. Ma, a questo punto, perché si dovrebbe giustificare la rappresentanza e perché non lasciare che il popolo si autogoverni? Infatti, non è dimostrato che i cittadini siano necessariamente stupidi, nemmeno quando, a furia di essere trattati come tali, essi non fanno nulla per apparire intelligenti. Perfino la feccia della società può essere meno ottusa di quanto possiamo credere. “I poveri e i miserabili in questo mondo sono tutt’altro che stupidi, anche quando sono analfabeti” (Elliott, Lemert 2007: 152).
4.3. La rappresentanza senza vincolo: il voto
Lo strumento principe attraverso cui il cittadino sceglie i propri rappresentanti è il voto. Tutti gli Stati democratici riconoscono ai propri cittadini il diritto di voto, che è chiamato anche «suffragio», uno strano termine che è usato anche dalla chiesa col significato di aiuto, soccorso, preghiera. In campo politico esso indica la facoltà che è concessa al cittadino di implorare qualcuno affinché si faccia carico di curare i suoi interessi, riconoscendo così al rappresentante superiori qualità e capacità. È come se l’elettore dicesse al suo candidato preferito: «per favore, a miei interessi pensaci tu, perché io non ne sono capace». È il tipico atteggiamento del bambino che si rivolge all’adulto per ottenerne il necessario aiuto e che è stato portato a livelli estremi dall’ebraismo antico.
Il suffragio può essere diretto (il cittadini sceglie direttamente il suo rappresentante) o indiretto (il cittadino sceglie un organismo ristretto che poi procederà all’elezione vera e propria), uguale (ogni volo vale 1) o plurimo (il voto di alcuni cittadini ha un peso diverso rispetto a quello di altri), ristretto o universale, palese o segreto.
Il voto è una procedura decisionale usata sin dall’antichità, prevalentemente in forma palese, nelle assemblee, nei circoli, nei comitati, nelle piazze, nei palazzi, negli accampamenti militari. In pratica, il leader, o chi ne aveva facoltà, chiedeva ai presenti di votare una certa proposta e i presenti votavano o a voce, o per alzata di mano, o con altri gesti prestabiliti. In genere, questo tipo di voto rispettava i rapporti di forza del momento e costituiva una semplice formalità. Il voto palese era gradito agli aristocratici, perché finiva per avallare la loro volontà. Il voto segreto si cominciò ad affermare per volontà delle masse popolari, che dovettero vincere la resistenza degli aristocratici, i quali dal voto segreto si sentivano danneggiati. Particolarmente ricco, sotto questo riguardo, appare la seconda metà del II secolo a.C., quando venne approvato il voto segreto in specifici casi, per iniziativa dei tribuni della plebe. E poiché il voto segreto richiedeva l’uso di una scheda (tabella), queste leggi vennero chiamate tabellarie. Cicerone menziona quattro leggi tabellarie (Leg. III 16,35-36): la legge Gabinia (139 a.C.), che introduceva il voto segreto nei comizi per l’elezione dei magistrati, la legge Cassia (137 a.C.), che introduceva il voto segreto nei processi popolari, la legge Papiria (131 a.C.), che introduceva il voto segreto nei dibattimenti riguardanti l’approvazione delle leggi, la legge Celia (107 a.C.), che introduceva il voto segreto anche nei processi per alto tradimento. Questo per dire che il voto segreto non è una scoperta della democrazia dei moderni, ma è compatibile anche con i governi non democratici.
Il voto segreto diviene uno strumento democratico solo quando, per mezzo di esso, il cittadino prende decisioni in prima persona. Ma quando il voto segreto è usato come una procedura finalizzata a conferire deleghe in bianco, esso non è affatto uno strumento di democrazia, ma dev’essere considerato “come la forma meno attiva di partecipazione politica, in quanto richiede un impegno minimo che cessa una volta che si è votato” (Rush 1994: 126). Infatti, al cittadino è semplicemente richiesto, e neppure necessariamente, di apporre una crocetta sul nome di un candidato e quindi di farsi da parte e lasciare che l’eletto decida per lui. Nel momento in cui vota, egli delega la sua fettina di sovranità e assume uno status infantile.
“Quando votiamo per eleggere, non decidiamo singole questioni di governo. Il vero potere dell’elettorato è il potere di scegliere chi lo governerà. Dunque, le elezioni non decidono le questioni, ma decidono chi sarà a deciderle” (Sartori 1993: 75). Così facendo, accettiamo di affidarci ad altri, come dei bambini che hanno bisogno di una guida, e sortiamo il risultato “di far sì che il popolo stesso presti automaticamente la forza materiale per assicurare il predominio della classe politica dominante sopra sé medesimo” (Rensi 1995: 88-9). In altri termini, nel momento in cui trasferiamo a dei rappresentanti la nostra fettina di sovranità, è come se annullassimo il nostro stesso Io.Ci spogliamo di ogni potere e ci rivestiamo dello status di cittadini di serie B.
La procedura elettorale è tale che, anche se il cittadino rifiuta di votare, oppure vota scheda bianca o scheda nulla, l’esito della consultazione è scontato e non cambia: assumeranno il potere alcuni dei candidati designati preventivamente dai partiti e governeranno con delega in bianco. Così, la gente si abitua a non pensare e a credere che tutto debba venire dall’alto. “Tuttora gli italiani aspettano sempre, in politica, che qualcuno faccia qualcosa. Ma sono convinti che «non c’è nulla da fare»” (Guerri 1995: 98). Apatia e rassegnazione sono le logiche conseguenze di questo modo di intendere la rappresentanza.
Il suffragio è uno pseudo diritto che offre al cittadino la facoltà di scegliere il soggetto politico a cui cedere la propria sovranità. È come lasciargli la scelta di che morte morire. E questo vale tanto per il voto palese che per quello segreto. Entrambi hanno risvolti negativi: il voto segreto incoraggia l’ipocrisia e l’inganno, in quanto il cittadino può lasciar credere che voterà in un modo diverso da come poi effettivamente voterà e non favorisce l’assunzione di responsabilità; il voto palese rischia di non essere libero o di diventare oggetto di compravendita. Nessuno dei due è simbolo di libertà.
Ora, se anziché dal punto di vista del cittadino elettore, osserviamo il principio di rappresentanza dal punto di vista del candidato rappresentante, lo scenario cambia radicalmente. Per il candidato rappresentante, infatti, l’essere eletto può costituire un’occasione per acquisire una buona sistemazione economica e per curare meglio i propri affari. È difficile, tuttavia, che venga eletta una persona priva di adeguate risorse economiche. Infatti, la rappresentanza è “sostanzialmente dominata dal capitale (talora il capitale giunge al vertice della rappresentanza); la legge è fatta dal più forte” (Schiavone 1997: 216). Così si chiude il cerchio: il denaro può essere investito per acquistare potere e il potere può essere usato per produrre denaro. Come dice Joseph E. Stiglitz, “La ricchezza genera potere, quel potere che consente alla classe dominante di mantenere quella ricchezza” (2006: 157).
Sotto questo aspetto, è didattico il caso Berlusconi, il quale è lì a dimostrare come un imprenditore di successo possa essere attratto dall’idea di fondare un partito e tentare la conquista del potere esecutivo e legislativo. La scalata al premierato di Berlusconi ha il sapore di un’abile operazione finanziaria, che punta non solo alla consolidazione e al miglioramento della propria posizione economica, mettendola al riparo dal rischio di una legislazione avversa e anzi accrescendola grazie ad una legislazione amica, ma anche ad allentare la pressione della giustizia sulla persona dell’imprenditore. Un vero colpo da maestro!
Chiudo ricordando che il sistema elettorale oggi vigente in Italia è regolato dalla Legge 270 del 21 dicembre 2005, meglio nota come “legge Porcellum”, la quale stabilisce che a) la scelta del candidato è imposta dal segretario di partito, b) chi vota sceglie il partito non la persona. In pratica, il governo del paese è scelto dall’alto, mentre ai cittadini è concesso soltanto un formale diritto di ratifica di decisioni prese da altri. Il fatto che un sistema siffatto venga ancora definito democratico dimostra a sufficienza che quella che noi chiamiamo impropriamente democrazia e, in realtà, un’oligarchia mascherata.
18. Il contratto politico
15 anni fa
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