venerdì 28 agosto 2009

17. Informazione

Viviamo nell’era della globalizzazione, di internet e della televisione e siamo sommersi da informazioni di ogni tipo, che circolano da un capo all’altro del pianeta alla velocità della luce, un fenomeno talmente evidente e pervasivo che qualcuno ha visto in esso la «base» della nostra cultura (Dahrendorf 2005: 269). Sennonché, quando l’informazione assume l’aspetto di una valanga o di un ginepraio, diventa davvero arduo districarvisi e distinguere l’informazione produttiva e corretta da quella futile o fuorviante, e si corre il rischio di essere plagiati da imbonitori, demagoghi e ciarlatani, che, a vario titolo, potrebbero condurci là dove non vorremmo andare.
La qualità dell’i. cambia a seconda del sistema politico vigente, ma anche a seconda delle persone che la diffondono. Se è controllata da persone ambiziose e senza scrupoli, o da regimi autoritari, essa può perseguire l’effetto di ipnotizzare le masse e assoggettarle alla volontà dei potenti, se invece è aperta a tutti, essa può costituire un formidabile strumento di crescita personale e di democrazia. Il modo in cui l’i. viene gestita ci consente di distinguere non solo un regime autoritario da uno democratico, ma anche una democrazia da un’altra. Infatti, come osserva Stefano Rodotà, “Si può ben dire che il grado di democraticità di un sistema si misura anche in base alla quantità e alla qualità delle informazioni rilevanti che circolano al suo interno, e all’ampiezza della platea dei soggetti che ad esse possono accedere” (1997: 85). In definitiva, oggi l’i. può essere usata come una formidabile arma nel bene e nel male, potendo servire tanto alla crescita culturale di un popolo quanto per asservire le persone, come non era mai avvenuto in passato.
In questa sede cercherò di mettere in evidenza il diverso modo di intendere l’i. da parte della DD e della DR. Prima però è necessario precisare che cosa intendiamo per informazione.

A) La «conoscenza»
Diciamo subito che l’informazione è riconducibile sicuramente ad una qualche forma di conoscenza, ma non è un sinonimo di «conoscenza». Il termine «conoscenza» può essere usato in riferimento ad ogni idea (anche la più astratta e la meno verificabile) che matura nelle teste delle persone. Pensate a tre personaggi molto famosi: Mosè, Gesù di Nazaret e Maometto. Ciò che li accomuna è una «rivelazione» personale da parte di Dio, che si è tradotta nella nascita di tre religioni monoteistiche, che oggi dominano mezzo mondo. Pensate anche alla teoria «scientifica» del big bang, che spiega l'origine dell'universo. In entrambi i casi siamo di fronte ad idee non verificabili, che, pur appartenendo a due campi molto diversi (metafisico e scientifico), tuttavia possono essere ascritte a buon diritto nell'ambito della conoscenza «seria».
Ogni persona è raggiunta ogni giorno da infiniti stimoli sensoriali ed endogeni, che costituiscono le fonti primarie della nostra conoscenza, ma nessuno è in grado di conservare una memoria di tutti questi stimoli, se non in una minima parte. L’insieme poi di tutte le conoscenze di tutti gli individui di ogni tempo genera un altrettanto infinito patrimonio di dati che, anche in questo caso, nessuna mente umana potrà mai contenere. In pratica, solo le conoscenze che siano ritenute capaci di incidere in un qualsiasi modo (e in un tempo anche differito) nella vita di una qualche persona verranno ricordate; le altre verranno cancellate. Alcune di queste conoscenze andranno poi trasmesse, in forma orale o scritta, alle generazioni future, e andranno così a formare due immensi archivi di dati: la tradizione e la letteratura.
Possiamo distinguere molti tipi di conoscenza. Ne ricordo alcuni:
1. La conoscenza che deriva dalla fede, come quella che ha operato in Mosè, Gesù di Nazaret e Maometto. Di norma, essa è ritenuta certa e assoluta, benché non possa essere dimostrata.
2. La conoscenza empirica, che comprende tutti i fatti osservabili per mezzo dei sensi. Per esempio, se mi trovo davanti ad una ontagna e dico «Vedo una montagna», sto semplicemente comunicando a me stesso o ad altri una mia conoscenza immediata, che generalmente (anche se non sempre) è condivisa a livello universale.
3. La conoscenza razionale, che può essere di tipo deduttivo, quando procede per semplice ragionamento (ad es. nel campo della matematica), oppure di tipo induttivo, quando si elaborano idee universali partendo da dati empirici (ad es. nella statistica). Di norma, le verità che queste conoscenze esprimo sono considerate relativamente certe.
4. La conoscenza scientifica, che inerisce ai fatti documentabili e verificabili da chiunque. Secondo il pensiero laico, si tratta della migliore forma di conoscenza di cui l'uomo sia capace, ma anche le verità che essa esprime sono sempre relative.
5. La conoscenza per intuizione è quella che matura spontaneamente e repentinamente nella testa di una persona a partire dalle sue conoscenze pregresse. In genere, si tratta di idee nuove, tutte da dimostrare, che però possono rappresentare l'inizio di altre conoscenze.

B) Significato di «informazione»
La conoscenza diventa «informazione» solo quando venga trasmessa (per via orale o per iscritto) da una persona ad un'altra.
Chiamerò informazione propriamente detta (i.p.d.) la conoscenza che transita da un soggetto ad un altro in risposta ad una precisa richiesta di quest'ultimo. «Che ora è?» «Sono le 10.00». Ecco un tipico esempio di i.p.d.. La presenza di un soggetto richiedente lascia presumere l'esistenza di un sicuro interesse da parte dello stesso.
Supponete ora che un vostro amico vi racconti una sua baruffa col capufficio, o la sua ultima gita fuori porta, senza che voi glielo abbiate chiesto. In questo caso, parlerei di pseudo-informazione (p.i.) o informazione spuria (i.s.), perché manca la richiesta. A questo genere di informazione appartengono i film, i libri, i giornali e tutti quegli elementi di conoscenza che transitano da un soggetto ad un altro in assenza di una richiesta esplicita. L'orologio della piazza che scandisce le ore appartiene a questa tipologia di informazioni. L'assenza di un soggetto richiedente lascia presumere che la p.i. potrebbe essere accolta con indifferenza. Ma non è così. L'esperienza ci insegna, infatti, che delle persone possono provare interesse anche per informazioni che non hanno richiesto. È su questa base che diremo «quel film è stato un flop», oppure «questa è una rivista di successo».
Nell'indagare la psiche umana, le scienze pisicologiche hanno scoperto che gli uomini sono più sensibili a certe informazioni piuttosto che ad altre, a certi film, romanzi, giornali, riviste, discorsi, messaggi piuttosto che ad altri. Su queste basi si sono affermati certe figure di «professionisti» (giornalisti, registi, scrittori, ecc.), i quali si sono specializzati nell'arte di selezionare le informazioni da divulgare e nel modo di presentarle, con l'obiettivo di renderle gradevoli al cittadino medio. L'opera di questi professionisti è particolarmente apprezzata sia dai governi autoritari, che se ne possono servire per fare una propaganda politica incisiva, sia dai paesi a libero mercato, che se ne possono servire per incrementare il consumismo. Le informazioni scelte e confezionate ad arte dai professionisti del settore diventano notizie, ovvero merce vendibile. I cittadini non ne sono i richiedenti, ma semplicemente i consumatori.

C) Funzioni dell'informazione
Abbiamo affermato che ciò che caratterizza l'i. è la presenza di un soggetto richiedente sulla base di un qualche interesse personale. Così concepita, l'i. altro non è che una conoscenza selezionata sulla base della sua utilità. Secondo Baldassarre, essa è funzionale “per comprendere le cose e per potere agire consapevolmente” (2002: 122). In effetti, l’i. è sempre strumentale, altrimenti verrebbe respinta o si perderebbe nel dimenticatoio, dissolvendosi nel nulla. Potremmo dire che l’i. serve da guida le nostre azioni ed è anche un imprescindibile strumento di libertà e di partecipazione politica responsabile. Per questo essa è così importante per noi.
L'esistenza di un interesse può spiegare perché, di norma, le persone si mostrano più interessate alle i. che riguardano il loro presente, piuttosto che quelle che si riferiscono al passato o al futuro, e può spiegare anche perché le persone imparano a distinguere la bontà di un’i. sulla base dei risultati conseguiti. Le i. «buone» saranno quelle che aiutano la persona a prendere le migliori decisioni possibili e agire in modo benefico per sé e/o per altri. All’opposto, le i. «cattive» saranno quelle che arrecano del male a sé e/o ad altri.

D) Importanza dell'interpretazione
Solitamente le persone mostrano scarso interesse per i fatti nudi e crudi. Per es., il fatto che io veda una montagna davanto a me potrebbe dirmi poco, ma se vi aggiungo che sulle sue pendici c'è un centro turistico ricco di attrattive, la cosa potrebbe interessarmi. In pratica, un fatto nudo e crudo acquista interesse solo quando è corredato da altre informazioni (una spiegazione, un’interpretazione o un commento), tanto da indurre Nietzsche ad osservare che “non esistono fatti bensì soltanto interpretazioni” (in Fukuyama 1999: 104). Per tale ragione, da qui in avanti, userò il termine «informazione» col significato di «conoscenza integrata». Solo le conoscenze integrate suscitano l’interesse delle persone e le orientano all’azione.

E) Potere dell'informazione
È sufficientemente noto che “l’informazione possiede la capacità di influenzare e condizionare le convinzioni e i comportamenti dei cittadini, operando quindi con tutte le caratteristiche sostanziali di un potere” (Costanzo 2004: 9). Questo potere è gestito in modo diverso dai diversi regimi politici: nei regimi autoritari è gestito da élite, in quelli democratici da tutti i cittadini.

F) Il modello scientifico e la verità impossibile
Fra tutte le forme di conoscenza razionale la conoscenza scientifica è comunemente ritenuta quanto di meglio l’uomo sia finora stato in grado di produrre. Tuttavia, per quanto sia suffragata da prove riproducibili, nemmeno la scienza enuncia verità definitive e immutabili. Secondo Roberto Maiocchi, “La verità scientifica non è altro che l’insieme di soluzioni a problemi che in una data epoca sono condivise dalla maggioranza degli addetti ai lavori” (1995: 547). Detto in altri termini, “non esiste un modello di razionalità scientifica universalmente valido” (Maiocchi 1995: 548).
Dalla scienza, asserisce Popper, non ci dobbiamo aspettare la verità, come invece avviene nel campo della metafisica, ma semplicemente delle teorie che sono ritenute attendibili nella misura in cui dimostrano di saper resistere ai tentativi di confutazione. Per Popper, in ciò la scienza si distingue dalla metafisica, nel fatto che le sue asserzioni sono falsificabili: solo le teorie che possono essere confutate dall’esperienza appartengono alla scienza. Ne consegue che “il lavoro dello scienziato consiste nel produrre teorie e metterle alla prova” (Popper 1995: 9). Una teoria viene ritenuta plausibile fintantoché non venga confutata e si tenta di confutarla proprio perché si sa che essa non è certamente vera e perfetta.
C’è uno stretto connubio fra paradigma scientifico dominante e potere politico. “La scienza è indubbiamente uno strumento di governo, ma allo stesso tempo il governo e i suoi poteri sono in qualche modo costretti al suo servizio” (Mayor, Forti 1997: 50). Kuhn ha parlato di «paradigmi». Il paradigma “è ciò che viene condiviso da una comunità scientifica” in un dato momento (Kuhn 1995: 213). Come nasce un paradigma? “Ogni nuova interpretazione della natura, sia essa una scoperta o una teoria, sorge dapprima nella mente di un singolo o di pochi individui” (Kuhn 1995: 175). Il paradigma nasce quando quell’individuo o quei pochi individui riescano a suscitare consenso e a creare un movimento di pensiero alternativo alla cultura dominante. Ora, laddove un paradigma alternativo dovesse prevalere su quello dominante e soppiantarlo, in questo caso avremo un cambiamento e, talvolta, una vera e propria rivoluzione culturale. Kuhn vede nella storia della scienza un susseguirsi incessante di rivoluzioni, intendendo per tali “quegli episodi di sviluppo non cumulativi, nei quali un vecchio paradigma è sostituito, completamente o in parte, da uno nuovo incompatibile con quello” (1995: 118).
Secondo Kuhn, nessun paradigma è perfetto e nessuno è in grado di risolvere tutti i problemi. Inoltre, tra due o più possibili paradigmi alternativi, è impossibile stabilire quale sia il migliore in assoluto e, pertanto, si finisce con lo scegliere quello che riceve più consensi (Kuhn 1995: 122). Il consenso, poi, è legato al tipo di problema che si preferisce risolvere: “poiché nessun paradigma risolve mai tutti i problemi che esso definisce e poiché non succede mai che due paradigmi lascino irrisolti proprio gli stessi problemi, le discussioni sui paradigmi implicano sempre la questione: quali problemi è più importante risolvere?” (Kuhn 1995: 138). Ora, essendo la gerarchia dei problemi legata agli equilibri e ai rapporti di forza sociali del momento, ne consegue che il paradigma prescelto sarà, in qualche modo, un’emanazione del potere politico ed economico.
Nel 2010, a distanza di un secolo e mezzo da L'Origine delle specie, sono stati pubblicati due libri da parte di valenti scienziati: uno è Il più grande spettacolo della terra. Perché Darwin aveva ragione, di Richard Dawkins, l'altro Gli errori di Darwin, di Massimo Piattelli Palmarini e Jerry Fodor. Entrambi trattano del darwinismo e conducono le proprie argomentazioni alla luce delle più recenti conoscenze nel campo della genetica, dell'embriologia e delle scienze biomolecolari. Però giungono a conclusioni antitetiche: Dawkins afferma che Darwin aveva ragione, Piattelli Palmarini e Fodor sostengono invece che aveva torto, in particolare per quel che concerne la teoria della selezione naturale. Secondo questi ultimi autori, che si professano atei, la teoria della selezione naturale non solo non sarebbe verificabile, ma sarebbe probabilmente sbagliata, in altri termini, non ci sarebbe alcuna selezione, né da parte della Natura, né da parte di Dio, né da parte di alcun altro Ente capace di produrre effetti intenzionali.
Ora, se nemmeno la conoscenza scientifica, che è la migliore forma di conoscenza di cui l’uomo sia capace, produce verità assolute, ne deriva che la verità non appartiene all’uomo, e ciò varrà tanto più quanto più ci allontaniamo dalla scienza. Inutilmente, dunque, cercheremo la verità nella sfera del sociale, dell’etica, della morale e della religione, come anche della politica, di cui ci stiamo occupando.


17.1. Informazione e Democrazia Diretta
Abbiamo affermato sopra che solo le «buone i.» aiutano la persona a prendere le migliori decisioni possibili per sé e per gli altri e a comportarsi in modo autenticamente democratico, ovvero in modo libero e responsabile. Ma che cos’è una «buona i.»? Qualcuno potrà pensare che una buona i. dovrà essere «vera». Abbiamo visto che così non è. Non esiste la verità, nel senso che non esiste una conoscenza certa, preservata cioè dal rischio di essere prima o poi smentita da nuove acquisizioni. L’uomo non produce la verità, ma tante verità, tutte parziali, tutte diverse, e talune opposte. Più che verità è meglio chiamarle «opinioni». "Ma il fatto che non conosciamo «con certezza» non è un difetto; piuttosto, è una garanzia contro qualsiasi autorità che si arroghi un potere sulla scienza e contro il nostro stesso autocompiacimento" (Giorello 2010: 99).
Se noi affermiamo che la verità esiste e può essere conseguita dall'uomo rischiamo di non vedere mai sorgere una democrazia degna di questo nome, per le seguenti ragioni: 1) la verità chiude la discussione, che è l'anima della democrazia; 2) se la verità esiste, esisteranno anche persone che affermeranno di possederla e persone disposte a credervi (è così che si creano le sette), ma ci saranno anche persone che la penseranno diversamente e che creeranno altre sette, a volte l'una contro l'altra armata. Questo fenomeno è particolarmente evidente nelle religioni, ma è presente anche in politica; 3) quando ciascuno agita la propria verità come se fosse una bandiera, si creano i presupposti per l'affermazione di nazionalismi, barriere culturali, intolleranze e violenze; 4) la verità è invocata dalle religioni monoteiste e dai governi autocratici; 5) la verità non è invocata né dalla scienza né dalla democrazia; 6) la verità è la tomba della scienza, perché pone fine alla ricerca; 7) la verità porta all'immobilismo mentale.
Se noi invece affermiamo che la verità non esiste, in realtà affermiamo che: 1) nessuno (nemmeno Berlusconi, nemmeno il papa) possiede la verità; 2) nessuno è maestro per definizione; 3) tutti siamo maestri e allievi nello stesso tempo; 4) ciascuno deve usare il proprio cervello per cercare la propria verità e deve evitare di accettare per fede le «verità» di presunti maestri; 5) anche quelle che oggi ci sembrano verità somme un giorno potranno essere superate; 6) per questo i cittadini non devono mai cessare di metterle in discussione; 7) tutti siamo fallibili e, sotto questo aspetto, uguali.
In definitiva, dichiarare in modo chiaro è forte che nessuno possiede la verità non dev'essere inteso come un semplice esercizio filosofico, ma come un modo di difendere la democrazia, isolando per tempo l'affermazione di pericolose figure di capipopolo. Ebbene, se siamo consapevoli che la verità non esiste, e solo a questa condizione, ogniqualvolta qualcuno dovesse gridare «Ho scoperto la verità!», verrebbe subito isolato e messo nelle condizioni di non nuocere, come si conviene ad un nemico della democrazia. In democrazia, infatti, la verità appartiene a tutti i cittadini nel loro insieme e a nessuno in particolare.
Si tratta, in definitiva, di rovesciare gli attuali rapporti di forza fra i cittadini e di comprimere la «piramide» sociale, affermando il principio secondo il quale, dacché la verità non è posseduta da nessuno, non è giustificato che una minoranza di «esperti» decida dall'alto quali informazioni dare alle masse e come. Si tratta anche di aiutare i cittadini a prendere coscienza che i titolari dell'i. sono proprio loro, ciascuno di loro. I cittadini devono capire che sono essi la fonte primaria dell'i. e i fruitori ultimi dell'i. stessa, e devono anche capire che l’i. dovrebbe essere annoverata fra i servizi pubblici fondamentali, assieme all’acqua, alla corrente elettrica, all’istruzione e alla salute. Infine, essi devono capire che, se non vogliono alienare la loro titolarità sull'i., dovranno essere disposti a pagare interamente il costo relativo, tenendovi lontano l'imprenditoria privata, onde evitare che l'i. si riduca a merce, e i partiti politici, onde evitare che l'i. si riduca a propaganda.
In democrazia si incoraggiano le buone opinioni. «Buona» è l’i. plurima, ovvero l’i. che proviene dal maggior numero possibile di fonti, il che, tuttavia, continua a non essere di per sé garanzia di veridicità. È proprio perché non esiste la verità che dovrà essere data ad ogni persona la possibilità di formarsi la propria verità, partendo dalla consultazione di diverse fonti. La pluralità delle fonti è la premessa indispensabile affinché il cittadino comune possa formarsi una propria opinione personale ben fondata, di cui, come abbiamo detto, potrà valutare la bontà solo a posteriori, in rapporto alle conseguenze delle proprie scelte e delle proprie azioni. Solo la persona che costruisca da sé stessa le proprie opinioni dopo aver attinto a diverse fonti merita di essere considerata un «cittadino democratico», perché solo un siffatto cittadino sarà funzionale alla democrazia e tenderà a produrre regimi democratici.
Il cittadino democratico corrisponde alla figura dell'ateo, come viene descritta da Giulio Giorello in un suo recente libro. L'ateo di Giorello non è uno che si affanna a dimostrare che Dio non esiste, "Non va in cerca di una prova che Dio non c'è; anche se dovesse esistere il Signore del mondo, preferisce non mettersi al suo servizio" (2010: 192) e si lascia guidare principalmente dalla propria testa. L'ateo secondo Giorello è uno che tiene alla propria autonomia di pensiero e fa proprio il motto degli anarchici «né dio né padroni». "La forza dello spirito, per l'ateismo, non sta nel dimostrare che Dio non c'è, bensì nel rifiuto di riconoscerlo come un padrone" (Giorello 2010: 178). L'ateo "non ritiene che alcun valore sia così profondo da imporgli il sacrificio della propria autonomia o indipendenza di giudizio" (Giorello 2010: 146). L'ateo si oppone alle religioni nella misura in cui esse si definiscono portatrici di verità assolute, che poi tentano di imporre e alle quali esigono accettazione incondizionata. L'ateo è uno che "decide il corso delle proprie azioni, che soppesa l'utilità che si aspetta dalle sue scelte alla luce delle opinioni che si è liberamente formato su come va il mondo" (Giorello 2010: 182).
Il cittadino democratico sa che “gli unici – o perlomeno i principali – produttori di ricchezza sono l’informazione e la conoscenza” (Drucker 1993: 199) e fa proprie le seguenti parole di Kahlil Gibran: “La vera ricchezza di una nazione non è nel suo oro e argento, ma nel sapere, nella saggezza e nella rettitudine dei suoi figli” (1992: 64). Il cittadino democratico sa bene che la democrazia non può attecchire dove non c’è istruzione e informazione plurale e perciò si aspetta che un governo democratico investa molto in questi settori. Da parte sua, se non vuole affossare la democrazia, un governo ha tutto l’interesse di assicurare “concretamente la disponibilità di una «massa critica» di informazioni che permetta di dare ai cittadini voce e potere” (Rodotà 1999: 47).
Il cittadino democratico sa anche che “le grandi idee nascono talora fuori dalle solenni aule delle accademie scientifiche, nei posti più diversi e distanti dai laboratori universitari” (Di Trocchio 1997: 108). Egli perciò si oppone ad ogni monopolio della conoscenza e non si limita a prendere in considerazione le opinioni dei professionisti, ma ascolta anche le persone meno blasonate allo scopo di tesaurizzare al massimo il capitale umano, perché è convinto che un capitale umano portato ai massimi livelli porterà vantaggi per tutti.
In democrazia vale il principio che tutto deve girare intorno al cittadino. Il cittadino è la fonte primaria dell'i. e insieme il destinatario ultimo. Pertanto, non dovrebbero esistere giornalisti di professione, ma dovrebbe essere riconosciuto a tutti il diritto di rendere pubbliche le proprie idee e di diffondere informazioni di cui si sia in possesso, nel rispetto di norme etiche prestabilite e valide per tutti, le più importanti delle quali sono quelle di non arrecare danno ad alcuno e non dichiarare il falso per secondi fini o per semplice millanteria. Responsabili degli articoli dovrebbero essere gli autori medesimi, e non il direttore, il quale non dovrebbe essere insediato sulla sua poltrona dai vertici politici o economici del paese, ma per votazione dal basso, oppure per sorteggio o per titoli, e il suo compito dovrebbe essere quello di amministrare le risorse economiche e umane del suo giornale, oltre che far rispettare la deontologia professionale e le norme condivise.
Tra i numerosi strumenti dell’i. (dalla carta stampata alla radio, dalla televisione alla telematica), per via dei bassi costi e della facile accessibilità, Internet s’impone come il più democratico ed apre interessanti prospettive per l’attuazione della democrazia partecipativa. Esso pertanto dovrebbe essere adeguatamente sostenuto e potenziato.
In un paese veramente democratico, l’i. a pioggia dovrebbe essere bandita e ai cittadini dovrebbe essere offerto da tutte le Agenzie preposte un servizio di i., che fornisca risposte puntuali e articolate a tutte le possibili richieste. È lecito presumere che un governo democratico stanzierà un 2% del gettito tributario per finanziare le Agenzie di i. pubbliche e varerà leggi atte a rendere accessibile l’i. anche alle persone meno abbienti, un po’ come si fa attualmente coi servizi sanitari o scolastici. Lo scopo ultimo non è quello di decidere dall'alto quali informazioni dare ai cittadini, ma dare a questi esattamente le informazioni che essi desiderano. In democrazia, quello che conta non dovrebbe essere l'interesse del partito o dell'azienda, ma gli interessi di ciascun individuo, che "devono essere definiti nei termini delle sue proprie preferenze personali e non nei termini di ciò che qualcun altro pensa sia bene per lui" (Giorello 2010: 153).
In democrazia l’informazione dovrebbe essere libera e indipendente da ogni potere e quindi dovrebbe essere, almeno entro certi limiti, interamente pagata dai cittadini che vi accedono. Ne consegue che, almeno nell'informazione di base e in quella su domanda (vedi oltre), la pubblicità commerciale dovrebbe essere bandita. Qualcuno dirà che anche la pubblicità è una forma di informazione. Sì, ma è un'informazione interessata, non richiesta, che induce il cittadino a consumare per consumare, ha un costo che alla fine paga il cittadino, non è democratica perché cade dall'alto e non prevede discussione, è diseducativa perché si rivolge alla sfera emotiva (e non a quella razionale) delle persone, che vengono così disabituate a ragionare.
In democrazia, è il caso di ripeterlo, l’i. dovrebbe essere annoverata fra i servizi pubblici fondamentali, assieme all’acqua, alla corrente elettrica, all’istruzione e alla salute, e, come questi, pagata coi soldi dei contribuenti e dei cittadini. Concretamente, immagino un Servizio Pubblico per l'Informazione congegnato nel rispetto dei seguenti princìpi.
1. Tutti i cittadini possono esprimere opinioni, attenendosi a norme universalmente condivise, così come avviene nel mondo scientifico.
2. I cosiddetti professionisti dell'i. dovrebbero svolgere solo funzioni ausiliarie. In pratica, essi dovrebbero limitarsi a raccogliere, catalogare e archiviare le i. che vengono dai cittadini, per poi redistribuirle secondo la domanda. Essi potrebbero essere scelti per sorteggio da una rosa di candidati provvisti di adeguate competenze e restare in carica per un tempo prestabilito. Ovviamente, anche i professionisti potranno esprimere le proprie opinioni, ma solo in qualità di cittadini.
3. I suddetti professionisti selezionano le informazioni dei cittadini da essi ritenute di interesse più generale e le pubblicano sui media col nome dei cittadini estensori. Sul piano della carta stampata potrebbe essere sufficiente un foglio in doppio, in cui si riportano le informazioni essenziali, insieme ai rimandi per eventuali approfondimenti. La chiamiamo Informazione di base. Essa è decisa dall'«alto». La pubblicità vi è bandita. L'informazione di base è un servizio pubblico (come la scuola, la sanità, ecc.) e dev'essere pagato coi soldi pubblici: sovvenzionarla coi soldi dei privati o coi proventi della pubblicità sarebbe come trasformare gli ospedali in cliniche private o come tappezzare le aule scolastiche con le reclame delle merendine.
4. Gli stessi professionisti rispondono a tutti i cittadini che facciano richiesta di informazioni particolari, attingendo alla stessa banca dati. Il principio è che l'informazione deve presupporre una richiesta dal «basso»; solo così potrà risultare evidente il suo carattere strumentale (l'informazione deve servire a qualcosa). Se io ti chiedo «che ora è?» oppure «dove si trova la stazione dei treni?», evidentemente ho una qualche ragione per farlo. Parleremo di Informazione a domanda. Essa è decisa dal «basso». Anche qui la pubblicità è bandita.
5. Dovrebbe essere anche consentita un'Informazione libera, libera cioè di stabilire i contenuti e le forme editoriali, ma anche di servirsi della pubblicità commerciale. Essa non sarà sovvenzionata dallo Stato. In questa sede le aziende potranno fornire informazioni imparziali sui loro prodotti, di cui si assumono la responsabilità.
6. Non dovrebbero essere previsti organi superiori di controllo: sono gli stessi cittadini e le stesse Agenzie che si controllano gli uni gli altri. Chi racconta frottole, il mitomane e il millantatore viene di norma isolato dalla comunità dei cittadini corretti e messo spontaneamente nella condizione di non nuocere. Tuttavia, lo Stato si riserva di punire la propalazione di i. intenzionalmente false e tendenziose, con sanzioni pecuniarie e, in casi particolarmente gravi, con la chiusura dell’Agenzia o con l’interdizione dei cittadini responsabili.

17.1.1. Il relativismo democratico
Chiunque possieda, o ritenga di possedere, una verità assoluta è da ritenersi un pericolo per la democrazia. Costui, infatti, non solo non accetterà di documentarsi e confrontarsi, ma cercherà di imporre la sua verità con tutti i mezzi possibili, anche con la forza. La verità assoluta si oppone al dialogo e alla tolleranza, alla crescita culturale e alla ricerca, alla democrazia e alla pace, erige barriere fra gli uomini e conduce a posizioni fondamentaliste e intransigenti. La maggior parte delle persone che non sente il bisogno di leggere e informarsi, lo fa perché presume di possedere verità assolute. Apparentemente è gente tranquilla, quasi felice, ma in realtà è un pericolo per il progresso e la democrazia. Sotto questo aspetto e nella misura in cui affermano di possedere la verità, anche le religioni monoteiste costituiscono un problema per la democrazia. In effetti, la democrazia è divenuta possibile da quando l’illuminismo ha rigettato ogni pretesa di assolutismo e ha affermato che l’uomo si muove nella sfera dell’opinabile.
Da quella volta un numero crescente di persone è consapevole che “l’essenza delle cose ci sfugge e ci sfuggirà sempre, noi ci muoviamo nel relativo, l’assoluto non è in poter nostro” (Bergson 1971: 145). Oggi sono in molti a credere che “Non esistono fondamenti (certezze, valori assoluti, fini essenziali) nella vita degli uomini; ogni presunto «immutabile» si rivela contingente, ogni progettualità illusoria” (Volpe 2000: 259). Oggi molti sono anche propensi a credere che “L’educazione deve mostrare che non esiste conoscenza che non sia in qualche misura minacciata dall’errore e dall’illusione” (Morin 2001: 17). In democrazia dovrà valere il principio secondo il quale il “«pluralismo teorico» è meglio del «monismo teorico»” (Lakatos 1996: 77).
In democrazia, ogni individuo è un «assoluto» in sé, ma è un «relativo» nei confronti di ogni altro; ciò che uno pensa per sé è un assoluto, ma, nel momento in cui il pensiero di uno venga rivolto ad altri, esso diventa una semplice opinione. L’opinione non solo non è da disprezzare, ma rappresenta l’unico modo serio di giungere a verità relative da parte dell’uomo.
Secondo il pensiero democratico, infatti, “nessuna autorità umana può stabilire la verità mediante un decreto” (Popper 2000: 92) e “tutto ciò che è assoluto appartiene alla patologia” (Nietzsche, in Crespi 2008: 30). In effetti, la verità non è mai data una volta per sempre, ma è in perenne divenire. Tutto è opinione e merita il medesimo rispetto, anche se ciò non impedisce a ciascuno di costruirsi la propria scaletta di verità e di crearsi le proprie certezze, che potrà poi sostenere nei termini e nei modi che riterrà più opportuni, sempre, beninteso, nel rispetto delle regole democratiche. “Perciò il relativismo è quella concezione del mondo che l’idea democratica suppone” (Kelsen 1995: 149).
In sostanza, la democrazia è il regno della ricerca continua, non del dogma, del laicismo, non della religione, del dubbio, non della certezza. “Democrazia e verità assoluta, democrazia e dogma, sono incompatibili” (Zagrebelsky 2007: 16), perché “la democrazia […] è necessariamente relativistica” (Zagrebelsky 2008: 88).
Poiché mi rendo conto che le suddette affermazioni potrebbero sembrare troppo forti, ritengo sia il caso di soffermarmi ancora un momento sulla questione, prendendo spunto da un interessante lavoro di Giovanni Jervis, dal titolo eloquente Contro il relativismo (2005), dove l’autore attacca il relativismo a 360 gradi. Certo, il libro di Jervis meriterebbe un altro libro in risposta, ma in questa sede posso solo dedicargli poche righe. Prendo due critiche a caso: “Il relativista non crede nella scienza” (p. 43); “il relativismo diffida della razionalità umana” e non fa distinzione fra una verità e l’altra (p. 47). Da queste affermazioni risulta evidente che Jervis ha un’idea singolare di relativismo e devo confessare che anch’io sarei antirelativista se credessi che il relativismo fosse contrario all'indagine scientifica e rifiutasse di prendere posizione nei confronti di due verità alternative. Il mio relativismo invece ama la scienza, crede nel progresso scientifico, esalta la ragione umana, sa ben distinguere le cose migliori da quelle peggiori ed è anche perfettamente in grado di comprendere che la conoscenza è meglio dell’ignoranza, la tecnologia moderna meglio di quella dell’età della pietra, la democrazia meglio del dispotismo, e così via.
Occorre innanzitutto ricordare che "Relativismo non si oppone a verità, ma ad assolutismo" (Giorello 2010: 127). Va inoltre notato che “Il relativismo [...] è anch’esso relativo” (Bobbio 1992: 10) e, come tutte le altre verità relative, non è applicabile in tutti i campi allo stesso modo. Infatti, altro è parlare del mondo fisico e matematico, altro è parlare del mondo morale, religioso o politico: il relativismo è minimo nel primo caso, massimo nel secondo. Dire che l’Italia è più grande della Svizzera, che la terra è sferica o che tre è maggiore di due sono verità incontrovertibili, che nessuna persona nel pieno possesso delle proprie facoltà oserebbe mettere in dubbio, ma è ben difficile cercare la verità in questioni come l’aborto, l’eutanasia o la stessa democrazia. Come ha osservato Diego Marconi, “È certo ragionevole diffidare di chi avanza pretese di verità in campo etico e religioso, perché in questi ambiti sono poche le opinioni le cui giustificazioni siano più o meno unanimemente riconosciute come solide. Ma non c’è ragione di intendere la diffidenza alla verità in generale, o al concetto di verità” (2007: 157). Insomma, per quanto la nostra posizione sia relativistica, non c’è alcuna ragione di sostenere un relativismo assoluto.
È vero, spiega Salvatore Veca, “Le teorie a nostra disposizione non sono le migliori possibili, se – come dire – considerate indipendentemente dal tempo. Ma, entro un contesto opportunamente circoscritto, lo sono. È solo usandole adottandone e applicandone le regole, che possiamo sperare di costruirne di migliori e di più profonde. Non butteremo mai a mare una teoria, sino a che non ne avremo una migliore” (1982: 37). Relativismo significa allora semplicemente “essere consapevoli che siamo in costante ricerca della verità” e che “nessuno può pretendere di possedere la verità” (Crespi 2008: 19). La specificità del relativismo è, dunque, quella di non fissare limiti pregiudiziali al processo della conoscenza e di ritenere che la verità assoluta non è una prerogativa umana.
Insomma, come osserva Edoardo Boncinelli, “essere relativisti non vuol dire avere valori, tutt’altro! Vuol dire avere valori che si è disposti a mettere in discussione” (2009: 141). Relativismo non significa mettere tutto sullo stesso piano, ma significa soprattutto astenersi dal giudicare e condannare gli altri col pretesto che si stanno allontanando dalla verità (la nostra verità), in realtà semplicemente per il fatto che non la pensano come noi. Relativismo significa inoltre continuare a credere che, nonostante tutto, anche nelle concezioni apparentemente più assurde, può esserci almeno un briciolo di verità. Detto in altri termini, il relativismo afferma semplicemente che non possiamo mettere punti fermi a nessuna delle nostre teorie scientifiche e a nessuno dei nostri enunciati razionali, che non c’è alcun capolinea, che siamo esseri imperfetti e il nostro destino è quello di essere sempre in cammino.
Ha ragione, dunque, Raymond Boudon a distinguere un relativismo buono e uno cattivo: “Il buono ci permette di comprendere l’Altro. Il «cattivo» mette tutti i comportamenti, tutti gli stati di cose e tutti i valori sul medesimo piano” (2009: 47). Mi piace concludere con le illuminate parole di Franco Crespi: “Il relativismo, se inteso correttamente, appare non solo la condizione irrinunciabile della vita democratica, ma anche la maniera più realistica di affrontare le questioni morali e di giustizia che si presentano nella vita politica e sociale” (2008: 20).


17.2. Informazione e Democrazia Rappresentativa
Anche nei paesi a regime DR non mancano proclamazioni di principio a favore della piena libertà di trasmettere informazioni plurali e corrette. Ci aspetteremmo allora di trovarvi “le condizioni che rendano effettiva una realtà informativa libera e democratica” (Costanzo 2004: 8). E invece l’esperienza ci insegna che, il più delle volte, non si mette in pratica di ciò che si declama a parole.
Oggi, nelle nostre società DR, osserviamo uno strano fenomeno. A giudicare dall’enorme numero di pubblicazioni (non solo cartacee), di servizi televisivi e radiofonici, corsi, conferenze, incontri, dibattiti di ogni tipo, dovremmo ammettere, senza ombra di dubbio, che l’informazione è sicuramente plurale. Tuttavia, nonostante che i governi tendano a far credere che ciascuno di noi sia libero di diffondere e ricevere informazioni, la realtà è ben diversa. la realtà è che “Il governo tratta l’informazione che ha come se fosse qualcosa di sua proprietà, e non invece un patrimonio della collettività” (Stiglitz 2001: 18). In effetti, il grosso dell’i. è gestito dalla «casta» dei giornalisti e da coloro che controllano i giornalisti, ossia da poche persone appartenenti al mondo politico, imprenditoriale e finanziario.
Nei paesi a regime DR pressoché tutte le principali fonti di informazione sono controllate da gruppi di potere, pubblici e privati, e i contenuti dell'i. vengono decisi dall'alto e distribuiti a pioggia su cittadini distratti allo scopo di tenerne vivo l'interesse e di indurli a consumare. Il fatto che non sempre i cittadini dispongono delle necessarie risorse economiche per accedere a informazioni alternative, oltre che del tempo e delle necessarie capacità critiche per fruirne, interessa poco o punto. L’informazione viene trattata alla stessa stregua di un prodotto commerciale e secondo una logica di mercato e, di conseguenza, quello che conta non è la correttezza di ciò che si racconta, ma la sua vendibilità.
Così stando le cose, sembra del tutto naturale accompagnare l'informazione con inserzioni di pura pubblicità commerciale. In fondo, la logica è la stessa: suscitare nel cittadino il desiderio di consumare. Che poi venga consumata la «notizia» o il prodotto dell'industria o della finanza o determinati servizi poco importa. L’esigenza dominante è quella di coprire i costi e possibilmente di fare profitti, e tutto ciò dando al cittadino l'illusione di fornirgli un servizio essenziale di cui egli fruisce in piena libertà. In effetti, proprio in quanto servizio pubblico, l'informazione è sovvenzionata dallo Stato, con contributi che coprono circa 1/3 del costo totale (un altro terzo è coperto dai proventi della pubblicità, il terzo rimanente dai cittadini che acquistano l’«informazione»).
Tre sono, dunque, i «padroni» dell'informazione: 1) lo Stato, ovvero la classe politica dominante, 2) il Mercato, ovvero l'industria, la finanza e i servizi, e 3) i Cittadini, ovvero i consumatori. Ciascuno di questi padroni esercita determinati poteri: lo Stato ha il potere di fare le leggi e di decidere il carico fiscale e la distribuzione delle risorse pubbliche; il Mercato ha il potere di produrre ricchezza e posti di lavoro; i Cittadini hanno il potere di decidere se acquistare questo o quel prodotto. È del tutto evidente che la parte più debole è costituita proprio dai cittadini, che possono solo decidere se premiare questo o quel partito politico, questa o quell'azienda, questo o quello strumento di informazione, ma non possono in alcun modo modificare le regole del gioco. I cittadini possono solo scegliere fra i tanti prodotti che offre loro lo Stato e il Mercato, ma non possono decidere né in merito alle leggi da promulgare, né in merito a quali prodotti immettere nel mercato.
Il sistema dell'informazione non è dunque controllato dai cittadini, se non in forma indiretta e in misura marginale. Chi controlla l'informazione è lo Stato e il Mercato, i quali si servono di una ristretta classe di «professionisti» per far sì che i cittadini siano disposti a spendere di tasca propria per acquistare notizie che non hanno chiesto e prodotti vari di cui spesso non avvertono il bisogno. Ebbene, proprio a causa di esigenze della politica e del mercato, nessuna Agenzia di informazione e nessun giornalista sono del tutto liberi di scegliere le notizie da pubblicare e i commenti da fare, perché devono rendere conto ai loro padroni.
Il 20 maggio 2000 ho partecipato al convegno «Etica dell’informazione in sanità», che si è tenuto ad Udine, e ho trovato particolarmente interessanti gli interventi di due giornalisti, la dott. Alessandra Beltrame e il dott. Piero Villotta. La prima ha ricordato le forti pressioni cui è sottoposto il giornalista da parte delle aziende commerciali che pubblicano regolarmente sul suo giornale le loro inserzioni pubblicitarie, oltre che dei partiti politici e degli azionisti del giornale. Il dott. Villotta ha aggiunto che l’informazione seria costa e oggi, ha osservato, pochi sono disposti a pagare per essere informati. Il risultato ultimo è che le notizie pubblicate sono quasi sempre faziose e difendono o promuovono interessi di parte. Ora, se i media sono strumenti nelle mani dei potenti, i quali si limitano a fornire “ciò che massimizza i profitti” (Thurow 1997: 93), e se i cittadini sono trattati come semplici consumatori, e non come protagonisti politici, la conseguenza è che l’informazione non può essere seria.
A differenza dei sistemi politici democratico-diretti, dove si tende ad organizzare sistemi informativi orizzontali, che mettano al centro il cittadino, in qualità di produttore e destinatario della conoscenza, nei paesi a regime rappresentativo, il sistema informativo è a struttura piramidale. Al vertice troviamo gli organismi politici (parlamento, governo, partiti), che esercitano la loro influenza attraverso il potere legislativo, e gli organismi del mondo finanziario e produttivo, che esercitano la loro influenza attraverso il potere economico. A livelli inferiori troviamo i direttori dei giornali e i giornalisti. I cittadini comuni vengono esclusi dai giochi che contano e, col pretesto che sono dilettanti, vengono trattati come semplici consumatori. Alla fine, “non c’è spazio per i dilettanti, per quanto geniali essi possano essere. Soprattutto se battono strade fortemente innovative e quindi anomale e dissonanti rispetto alle idee dominanti. Il dilettante geniale viene rifiutato ed espulso da un corpo estraneo, e di lui e delle sue idee si perde perfino il ricordo” (Di Trocchio 1997: 109). Così, in nome di un ordine gerarchico che è definito imprescindibile per il buon funzionamento della società, si sprecano preziose risorse umane e si chiudono le porte alla democrazia.
Circolano moltissime informazioni, è vero, ma sono quasi sempre faziose e, per di più, si rivolgono a cittadini che spesso non hanno gli strumenti culturali necessari per orientarsi. Non essendo educati ad usare la propria testa, a confrontare informazioni diverse e ad elaborare sintesi personali, ed essendo invece abituati ai brevi e incisivi messaggi di tipo commerciale o propagandistico della televisione e dei giornali, questi cittadini sono piuttosto indotti all’omologazione e al conformismo e non crescono. Benché divengano adulti nell’aspetto e nell’età, di fronte al fiume di messaggi contrastanti che rischia di travolgerli, spesso i cittadini comuni finiscono col ritrarsi impauriti, mettendosi al seguito di un leader o cercando il conforto di una qualche comunità, una confraternita, una setta, un partito, una chiesa, dove si sentono protetti e al sicuro. Alla fine, senza l’autonomia di pensiero delle persone, l’informazione si riduce a mero strumento di potere e il cittadino diventa suddito.
Che l’i. sia uno strumento di potere è provato dal fatto che capita di rado che il direttore di un giornale venga perseguito dalla giustizia o sia sottoposto ad una qualche sanzione per avere pubblicato notizie false o tendenziose. Eccone un esempio. Sfogliando la rivista Panorama (non ricordo il numero preciso, ma doveva collocarsi tra aprile e maggio del 2000) rimasi colpito da due pagine di pubblicità. Nella prima (p. 82) Infostrada presentava una tabella, nella quale, cifre alla mano, dimostrava la convenienza delle proprie tariffe nei confronti di altre aziende, tra cui Tele 2. Nella seconda (p. 92) era Tele 2 che presentava la sua tabella e le sue cifre, che però dimostravano esattamente il contrario, e cioè la maggiore economicità di Tele 2 nei confronti di Infostrada. È del tutto evidente che almeno una delle due informazioni era falsa. Ora, se una rivista può pubblicare falsità in ambito matematico, che sono facili da smascherare, chi può assicurare il lettore che la stessa rivista non contenga altre falsità in ambito concettuale, che sono più difficili da individuare e quindi più insidiose? Se è possibile manipolare i numeri, figuriamoci i concetti! In ogni caso, fatte salve le consuete eccezioni, così come il direttore di Panorama non è stato chiamato a rispondere della falsità delle cifre pubblicate sul suo giornale, a maggior ragione egli non è stato chiamato a rendere conto sulle idee. E quello che vale per Panorama vale anche per tutti gli altri mezzi di informazione di massa, compresa la televisione. Ora, se l’obiettivo dei giornali fosse quello di dare informazioni corrette al cittadino, i direttori dovrebbero temere tutte le volta che nei loro giornali vengano pubblicate notizie di cui un qualsiasi cittadini potrebbe provare la falsità. E invece ciò non accade e si ha l'impressione che i direttori dei giornali possano contare sulla compiacente complicità dei poteri forti, come se ne facessero parte o ne fossero strumenti.
In ultima analisi, il cittadino paga il costo delle riviste e del canone tv, ma senza avere in cambio alcuna garanzia sulla correttezza delle informazioni che gli vengono fornite. Perché allora deve pagare? Nell’estate 2000 Tiscali.net faceva una pubblicità rivoluzionaria, che diceva: “hai avuto internet gratis – hai avuto internet più che gratis – adesso cosa vuoi, il costo della telefonata? Okay”. Il messaggio di Tiscali era chiaro: se tu, cittadino, accetti di essere raggiunto da informazioni interessate, io in cambio ti offro gratis il «servizio». Bene, perché questa logica, che vale per la telefonia, non dovrebbe valere anche nel caso delle riviste e della Tv, visto che anch’esse forniscono informazioni interessate? Ma, a questo punto, che senso avrebbe informarsi?


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