Se il diritto tutela prevalentemente lo Stato, e lo troviamo anche in governi monarchici o oligarchici, i diritti tutelano prevalentemente i cittadini e “sono consustanziali alla democrazia” (VOLPE 2000: 174).
Affermare che un individuo è portatore di diritti equivale a riconoscere che egli è portatore di bisogni. T.H. Marshall (1964) distingue tre tipi di diritti fondamentali (da FLORA 1991: 502).
1. Diritti civili: le libertà individuali (di parola, di pensiero, di fede, di scambiare merci), il diritto di proprietà e il diritto alla giustizia.
2. Diritti politici: ossia la facoltà concessa a tutti di partecipare (direttamente o indirettamente) all’esercizio del potere politico.
3. Diritti sociali: il diritto ai beni primari (casa e cibo), alla famiglia, all’alfabetizzazione appartengono alla categoria dei diritti sociali: essi consentono di condurre un’esistenza secondo uno standard considerato dignitoso.
12.1. Che cosa sono i diritti?
Dipende da come li guardiamo. Se li guardiamo dal punto di vista giuridico, i diritti si riducono all’effettiva osservanza della legge. Se invece li guardiamo dal punto di vista psicologico, i diritti altro non sono che i doveri verso noi stessi. Se poi li guardiamo dal punto di vista sociale, i diritti rappresentano il prodotto del riconoscimento che ogni essere umano è portatore di bisogni simili. Se infine li guardiamo da un punto di vista politico, diremo che i diritti dovranno essere garantiti dallo Stato.
12.2. Diritti e bisogni
In ogni caso, i diritti attengono ai bisogni della persona. Non esistono diritti senza bisogni, ma i bisogni non generano automaticamente diritti riconosciuti. Anche la pianta ha dei bisogni, eppure normalmente non parliamo di diritti della pianta. Perché? La ragione è semplice: la pianta non è dotata di sistema nervoso, non ha sensibilità, non ha emozioni, non avverte il dolore, non ha coscienza, e riconoscere dei diritti ad un essere solo vegetativo non ci sembra molto appropriato. Non esitiamo invece ad elevare a soggetti di diritto gli animali superiori, quelli cioè che sono dotati di un complesso sistema nervoso e di sentimenti.
Diritti e bisogni sono correlati, ma non sono la stessa cosa. La principale differenza è che i bisogni sono naturali e culturali insieme, i diritti solo culturali. Infatti, come osserva Francesco Alberoni, “non esiste un diritto naturale. La natura non prescrive niente. La natura conosce solo la legge della sopravvivenza del più adatto” (1993: 6). I diritti non sono immanenti alla persona, non fanno parte del suo corredo biologico, ma acquistano consistenza nel momento in cui vengono riconosciuti nella comunità in cui quella persona vive. I diritti perciò possono essere esercitati solo in un contesto sociale e non in condizioni di isolamento. In natura, l’uomo è sì un soggetto di diritti, ma lo è solo allo stato potenziale. Egli diventa effettivamente un soggetto di diritti solo nel momento in cui la sua condizione è riconosciuta a livello sociale.
I bisogni sono un attributo esclusivo dell’individuo ed è solo metaforicamente che li possiamo applicare ad un’entità astratta, come la società o lo Stato. Allo stesso modo, i diritti attengono alla persona individuale, “sono sangue, pelle e sistemi nervosi dei soggetti umani che li rivendicano o che ne patiscono la violazione” (FERRARESE 2002: 143) “e sono volti a garantire ai singoli le condizioni minime necessarie per conseguire una vita specificamente umana” (ARCHIBUGI, BEETHAM, 1998: 26). Vengono distinti in civili (libertà, sicurezza, proprietà, autodifesa), politici (diritto di voto e di partecipazione alla vita comunitaria), economici, culturali e sociali (di non facile definizione).
12.3. Diritti universali e patrimoniali
Così come non tutti i bisogni sono parimenti importanti, allo stesso modo nemmeno i diritti sono tutti uguali e solo alcuni di essi, come i diritti alla vita, alla libertà e alla sicurezza, meritano di essere definiti «fondamentali», ossia indispensabili affinché un essere umano possa condurre un’esistenza conforme alle sue caratteristiche biologiche. Secondo Luigi Ferrajoli, un diritto può dirsi fondamentale solo se riguarda tutti gli uomini o un’intera classe di uomini (universalità), senza esclusione di nessuno (inclusività) e senza differenze per alcuno (uguaglianza). I diritti che non rientrano in questa categoria sono da Ferrajoli chiamati «patrimoniali», nel senso che appartengono a singole persone e non ad altre, sono esclusivi e disegualitari. “Per quanto riguarda i diritti del primo tipo siamo tutti uguali; per quanto riguarda quelli del secondo siamo tutti disuguali” (FERRAJOLI 2001: 143).
12.4. Ogni essere umano è soggetto di diritti
Il primo e più fondamentale diritto è quello che Seyla Benhabib chiama “il diritto di avere diritti”, ossia “il riconoscimento a ogni singolo essere umano dello statuto universale di persona, indipendentemente dalla sua cittadinanza nazionale” (2006: 53). È sempre più problematico infatti discriminare giuridicamente gli immigrati, i rifugiati e i richiedenti asilo dai cittadini, e negare loro i diritti fondamentali. Gli americani si sono commossi quando hanno saputo che il caporale José Gutiérrez, di 27 anni, uno dei sette milioni di immigrati irregolari, è morto in Iraq, nel marzo del 2003, mentre combatteva per il «suo» paese, che, in qualità di «irregolare», non gli riconosceva il diritto di voto, insieme al altri diritti, come quello di conseguire una patente di guida o aprire un conto in banca. “Non sempre coloro che arrivano a sacrificare la propria vita in nome del popolo democratico sono membri a pieno titolo di quel popolo” (BENHABIB 2006: 172). Sono eventi estremi, certo, ma emblematici della paradossale realtà che si viene a determinare con l’esclusione dai diritti fondamentali di tutti gli esseri umani.
Secondo la Benhabib, “L’estensione piena dei diritti umani a questi individui e la de criminalizzazione del loro status costituiscono uno dei compiti più importanti per la giustizia cosmopolita nel mondo contemporaneo” (2006: 135). La studiosa non chiede l’apertura indiscriminata dei confini, chiede solo di renderli “porosi”, affinché non avvenga che persone umane, che in qualche modo sono inserite nel tessuto sociale di un paese e lavorano, siano lasciate andare incontro a sicura morte civile a causa della negazione dei loro diritti.
È da ritenere, pertanto, inaccettabile che uno Stato si limiti a riconoscere i diritti fondamentali soltanto ai cittadini, negandoli ad altri, perché i diritti non vanno visti “come pertinenza di uno Stato-nazione, ma piuttosto come parte di un patrimonio giuridico dell’intera umanità” (FERRARESE 2002: 46). Insomma, “sono gli individui a costituire la misura dei diritti morali e giuridici in una società mondiale, e non i popoli” (BENHABIB 2006: 77). Questo concetto è molto rilevante ai fini politici, perché, “A seconda che il pendolo dei diritti ricada dalla parte dell’individuo o dalla parte del gruppo, si disegnano opzioni diverse e persino opposte” (FERRARESE 2002: 159). Il “riconoscimento dei diritti dell’individuo, ovvero l’affermazione di un universalismo che riconosce a tutti gli individui gli stessi diritti, indipendentemente dai loro attributi economici, sociali o politici” è indicato da Alain Touraine come uno dei princìpi fondatori della modernità, insieme alla “credenza nella ragione” (2008: 100).
12.5. I diritti e la Democrazia
Dobbiamo ringraziare la DR se oggi un quarto della popolazione mondiale gode di un qualche rispetto dei diritti universali. Ma ancora di più dobbiamo aspettarci dal modello dei diritti che ci propone la DD.
12.6. I diritti DD
Che la DD sia un ordine politico rivoluzionario è provato dal fatto che pone in primo piano non i diritti dello Stato, come è invalso per millenni e fino ai giorni nostri, ma quelli della persona. “I portatori dei diritti umani sono gli individui e non soggetti collettivi quali «la nazione» o «lo stato». I diritti umani sono essenzialmente diritti soggettivi” (BECK 2003: 157). Questo cambiamento di prospettiva è di per sé sufficiente a creare le fondamenta di un “individualismo istituzionalizzato” (BECK 2003: 157), che pone al primo posto la persona nei confronti delle istituzioni e dello Stato.
12.6.1. Il reddito minimo garantito (RMG)
Come correttamente osserva Piero Calamandrei, non basta assicurare teoricamente i diritti al cittadino, “ma bisogna metterlo in condizione di potersene praticamente servire” (1995: 102). Ora, uno dei modi possibili di attuare concretamente il primato dei diritti della persona è quello di istituire un reddito minimo garantito (RMG).
La DD parte dal principio che “nei rapporti tra esseri umani, ognuno è fine in sé e non deve quindi venire mai ridotto come mezzo di altri. Da tale principio deriva che nessuno deve venire personalmente assoggettato a chicchessia per il fatto che questi possiede capitali” (FROMM 1994: 96). Ora, allo scopo di salvaguardare i diritti fondamentali degli individui nei confronti di qualsiasi potere esterno, compreso quello rappresentato dalla maggioranza, la DD riconosce a tutte le persone il diritto ad una vita dignitosa, a tal punto da essere disposta a corrispondere a ciascuna persona un reddito minimo garantito (RMG) o basic income, ossia “una erogazione monetaria di base uguale per tutti” (BACCELLI 2003: 82). Amartya Sen parla di «sicurezza protettiva» “necessaria per fornire una rete di protezione sociale che impedisca a chi ha questi problemi [rovesci di fortuna] di cadere in uno stato di miseria” (2001: 44). Secondo Rawls, è una questione di giustizia: “il concetto di giustizia implica l’istituzione di un minimo garantito del tutto indipendente dalla prestazione del cittadino” (1997: 256). Ma è sicuramente anche una questione di diritti democratici. “La giustificazione del reddito minimo è che esso è un complemento essenziale della libertà politica e giuridica” della persona e un modo per rendere effettiva la libera partecipazione alla vita politica da parte di tutti i cittadini (ATKINSON 1998: 80-1). Il RMG è ispirato al principio «a ciascuno secondo i suoi bisogni fondamentali» e il suo ammontare è stabilito in rapporto alle disponibilità economiche dello Stato.
Solo negli ultimi trent’anni, l’idea di RMG ha richiamato un’attenzione non occasionale, raccogliendo consensi, sia pure motivati in modo differenziato, ma anche critiche. Per quanto possa sembrare estraneo alla nostra cultura, il RMG costituisce una delle questioni “più frequentemente discusse” (SOMAINI 2002: 453) ed è preso in considerazione e raccomandato da autorevoli studiosi. Oggi, io credo, uno Stato che non sia in grado di garantire una vita dignitosa a ciascuna persona, non solo non è democratico, ma non è nemmeno uno Stato civile, quale che sia la causa della sua inadempienza.
Ma che cos’è esattamente il RMG? Chiamato in molti modi diversi (buono di Stato, credito sociale, salario sociale, quota proprietaria di cittadinanza, diritto di cittadinanza, assegno universale, e via dicendo), il basic income è un reddito e/o un pacchetto di beni primari corrisposto dallo Stato alle persone a garanzia dell’esercizio effettivo dei loro diritti del cittadino ed è da ritenere fondamentale in una democrazia degna di questo nome. Non per niente, perfino nell’antica Atene, i cittadini venivano ricompensati economicamente solo per il fatto che partecipavano alle pubbliche assemblee: era una sorta di «reddito minimo» ante litteram, teso a sconfiggere la povertà estrema e a rendere effettivi i diritti di cittadinanza.
Il reddito minimo garantito costituisce l’essenza stessa dello Stato DD, perché garantisce l’effettivo esercizio dei diritti fondamentali (sussistenza, salute, istruzione e libertà), che costituiscono la condizione minima perché una persona sia messa in grado di partecipare proficuamente alla politica. Per quanto alto possa essere, il costo del RMG è, secondo Ferrajoli, sicuramente preferibile “agli sperperi prodotti dagli enormi apparati burocratici e parassitari che oggi amministrano l’assistenza sociale” (2001: 350).
Oltre a garantire i diritti, il RMG funge da paracadute nei rovesci di fortuna, da ammortizzatore sociale e da pensione minima, ed è una valida protezione contro l’insicurezza sociale. Ma il RMG non basta. Lo Stato dovrebbe anche provvedere affinché nessun cittadino sia privo di un alloggio provvisto dei servizi oggi considerati indispensabili (acqua, luce, gas, telefono e riscaldamento), di un’assistenza sanitaria di base e di una scolarizzazione primaria.
Molti studiosi vedono nel RMG quanto meno la volontà di rendere effettivo l’esercizio dei seguenti diritti: “sostegno economico ai disoccupati e lotta alla povertà, inclusione sociale, retribuzione dei lavori domestici ed emancipazione femminile, libertà reale per tutti” (DEL BÒ 2004: 82). Norberto Bobbio afferma che oggi si tende a riconoscere non solo il diritto alla vita, “ma anche il diritto di avere il minimo indispensabile per vivere” (1999: 457). Secondo Ignacio Ramonet, occorre “Stabilire uno stipendio base incondizionato e universale, concesso a ciascun individuo sin dalla nascita, indipendentemente dallo status familiare o professionale, obbedendo al principio – rivoluzionario – secondo cui ogni essere umano ha diritto a uno stipendio vitale per il semplice fatto di vivere e non per vivere” (2003: 167). Philippe Van Parijs vede nel RMG un reddito corrisposto agli individui (e non alle famiglie) in modo incondizionato, a prescindere cioè da eventuali altri redditi percepiti o da attività lavorative svolte dal soggetto, e indipendentemente dalla sua volontà, allo scopo di offrire uno strumento molto più semplice e snello rispetto all’imponente apparato burocratico-assistenziale del Welfare State e di “concorrere a definire, al pari della cittadinanza giuridica, la piena cittadinanza economica e sociale” (in CASADEI 2003: 94). Una proposta simile è avanzata anche da Milton Friedman (1995), il quale prevede un credito d’imposta (credit income tax) o un’imposta negativa sul reddito (negative income tax), ossia, in fondo, l’equivalente di un salario minimo garantito per tutti.
Insomma, se ben congegnato, il RMG dev’essere in grado di rimpiazzare l’intera politica di welfare, che appare sempre più in affanno e incapace di assolvere alle funzioni cui è preposta, nonostante l’enorme quantità di denaro investito in essa. Da questa breve rassegna, possiamo concludere che il RMG “sta riscuotendo crescente attenzione fra studiosi ed esperti”, che tuttavia ancora oscillano tra la tendenza a considerarlo con generica simpatia e la tendenza a vedere in esso la chiave di volta per realizzare una nuova società (CASADEI 2003: 93).
Per come lo vede Atkinson, il RMG si basa su due punti fondamentali: l’introduzione di un’unica aliquota d’imposta del 35% e la sostituzione dell’attuale sistema previdenziale con l’introduzione di un reddito minimo garantito, da corrispondere sotto forma di crediti d’imposta. In altri termini, mentre i percettori di redditi pagherebbero il 35% di tasse sui loro profitti, gli incapienti riceverebbero un rimborso fiscale pari al reddito minimo prestabilito. Atkinson precisa che il reddito minimo dev’essere ritenuto un diritto “incondizionato” oltre che una “proposta praticabile” (1998: XII).
Somaini lo descrive così: “Nella sua forma più diffusa la proposta prevede le seguenti misure: 1) il pagamento incondizionato a tutti e a scadenze regolari di un’uguale somma (il RMG); 2) la sospensione (o la drastica limitazione) di tutte le forme preesistenti di assistenza o previdenza pubblica; 3) una contestuale semplificazione del sistema del prelievo fiscale sul reddito attraverso l’applicazione di un’unica aliquota (flat tax). L’accoppiamento del RMG con la flat tax non è intrinsecamente necessario, ma rappresenta una sua naturale estensione: perché entrambi gli istituti rispondono ad esigenze di razionalizzazione normativa e amministrativa, perché contribuiscono ad attenuare gli effetti distorsivi che accompagnano altri sistemi redistributivi e infine perché grazie ad esso il RMG può godere di consensi maggiori di quelli che avrebbe se fosse associato a qualsiasi altro sistema di prelievo” (2002: 453).
Il RMG non dev’essere fatto dipendere dalla carità o da altre forme di solidarietà, e nemmeno da sussidi o indennità di disoccupazione o benefit o misure temporanee o una tantum, che sono difficili da pianificare e lesive della dignità della persona, ma da un impianto di legge previsto dalla Costituzione. “Se ho bisogno di aiuto perché sono povero, o malato, o anziano, o solo, preferisco che l’aiuto sia il risultato di un riconoscimento di un mio diritto in quanto cittadino [… Perciò] la repubblica ha il dovere di garantire assistenza non come atto di compassione ma come riconoscimento di un diritto che deriva dall’essere cittadini” (BOBBIO, VIROLI 2001: 65-6). Così concepito, il RMG dovrà essere considerato parte integrante della persona e, in quanto tale, non potrà, in alcun modo, essere ceduto, ipotecato o alienato, ma dovrà seguire ciascun cittadino dalla nascita alla morte indipendentemente dal suo censo, dalle sue scelte di vita e dal suo comportamento, come un compendio di tutti i diritti democratici.
Tra gli argomenti addotti a favore del RMG dai singoli studiosi, Casadei ricorda i seguenti: il RMG contribuisce a promuovere “una maggiore libertà individuale e un più autentico rispetto della dignità personale e dunque una maggiore uguaglianza”; aiuta le persone a impostare e svolgere con più libertà e serenità i propri progetti di vita; rispetta la dignità della persona, perché non prevede di indagare sui suoi difetti o sui suoi fallimenti, né richiede l’espletamento di iter finalizzati all’accertamento di una situazione di bisogno; rafforza la posizione dei soggetti deboli all’interno delle loro famiglie; sostituisce “tutti o buona parte degli istituti che svolgono funzioni assistenziali o previdenziali”, riducendo al minimo l’ingerenza dello Stato nelle questioni personali e contribuendo a rimuove lo stigma, che si associa comunemente alle politiche assistenziali; è semplice, tanto da poter “essere facilmente tradotto in una norma costituzionale”; consente ad un soggetto la facoltà di ritirarsi temporaneamente o stabilmente dal lavoro, per le più svariate ragioni; contribuisce a far sì che la società venga percepita come «giusta» e che vengano a ridursi quei comportamento antisociali e criminosi, che sono spesso associati all’esclusione sociale (CASADEI 2003: 95-7).
Lo stesso Casadei menziona i seguenti argomenti contrari: lasciando ai cittadini la facoltà di non lavorare, pur essendo in grado di farlo, si rischia di spezzare il circolo virtuoso della cooperazione sociale, da cui poi dipende qualsiasi politica di welfare; il RMG favorirebbe il parassitismo e lo scrocconaggio; si potrebbe trovare difficoltà a reperire persone disposte ad accettare i lavori più umili o più usuranti; si sposterebbero a livello privato i servizi che adesso sono erogati dallo Stato (scuola, sanità); inoltre, essendo uguale per tutti, il RMG non tiene conto della diversità dei bisogni della gente e dei casi particolari; infine, esso può essere sperperato in pochi giorni da soggetti imprevidenti, che poi potrebbero risultare incapaci di far fronte alle spese relative all’alloggio e ai servizi essenziali (2003: 98-102).
La più insidiosa delle critiche al RMG è certamente quella che insinua il sospetto che esso indurrebbe la gente a non lavorare (GORRIERI 1981: 242) e a spassarsela alle spalle degli altri, come fa il «surfista di Malibù» che, negli scritti di Van Parijs, è diventato il simbolo di chi decide di fare la bella vita coi soldi degli altri. Ma così non è, per una serie di fatti, che sono facilmente prevedibili, ma che andranno verificati sul campo. Intanto, in democrazia, il lavoro è un diritto, e nessuno, di norma, rinuncia tanto facilmente ad un proprio diritto, a meno che non vi siano motivazioni di salute o le condizioni di lavoro siano viste come non convenienti o non dignitose. Nessuno rinuncia spontaneamente ad un buon lavoro, che rispetta i diritti della persona ed è adeguatamente retribuito, anche perché la DD tenderà a diffondere l’idea che il lavoro amplia la sfera dei diritti e contribuisce a motivare il cittadino alla partecipazione e all’assunzione di responsabilità, mentre una persona che rifiuta di lavorare è un cittadino a metà. Oltre a conferire uno status sociale più desiderabile, il lavoro consente di elevare le condizioni economiche del cittadino al si sopra del Minimo e di accrescere il suo potere d’acquisto e la sua sfera di libertà. A queste condizioni, dovrebbe risultare altamente improbabile che una persona rinunci a lavorare e si accontenti del Minimo.
Per ulteriori approfondimenti sui pro e sui contro del RMG rimando al magistrale volumetto di Corrado del Bò (2004), che ci fornisce una panoramica abbastanza ampia ed equilibrata delle diverse posizioni degli studiosi, in cui lascia libero il lettore di crearsi una propria opinione. Evitando di prendere posizione, né coi fautori né coi detrattori del RMG, Del Bò si limita ad affermare che “il reddito di base non è un’idea bislacca e stravagante, ma un tema che può estendere i confini della discussione pubblica su ciò che possiamo richiedere alle istituzioni” (2004: 125).
12.6.2 I doveri della persona verso se stessa
Il RMG rappresenta la parte che si accolla lo Stato a garanzia dei diritti della persona, ma c’è un’altra parte, la parte spettante alla persona medesima, in assenza della quale l’effettivo esercizio del diritto risulta problematico. Non c’è diritto fondamentale, infatti, che possa essere garantito da un semplice intervento esterno, qualunque esso sia. Da solo, il RMG non è sufficiente a conferire alla persona uno stato di salute o di sicurezza, e neppure a renderla libera.
L’esercizio dei diritti richiede l’impegno attivo della persona. Nessuno può essere soggetto di diritto se non lo vuole. Così il diritto diventa dovere, il dovere che ciascuna persona ha nei confronti di se stessa, il dovere di scegliere uno stile di vita salutare, di imparare a riconoscere i pericoli e ad evitarli, di esercitarsi all’uso autonomo del proprio cervello, di imparare a conoscere i propri bisogni, ma anche il dovere di contribuire ad esprimere tutto il proprio capitale umano e di impostare e portare a compimento un proprio progetto di vita, che poi è l’essenza stessa del proprio essere persona unica e irripetibile. “C’è un solo dovere – ha scritto Denis Diderot – quello di essere felici” (1967: 295). Ebbene, da un punto di vista politico, la felicità della persona non può consistere in altro che nella piena realizzazione di se stessa. Infatti, se prima non abbiamo assolto ai fondamentali doveri verso noi stessi, non possiamo assolvere ai doveri verso gli altri.
12.7. I diritti DR
Quando si parla di diritti si pensa subito alle conquiste sociali dei lavoratori e dei cittadini, a partire dall’Ottocento. Il più delle volte tali conquiste sono conseguite a dure lotte che hanno avuto per protagonisti i sindacati e i partiti di massa da un lato, i governi e il mondo dell’imprenditoria dall’altro. Il fatto che le battaglie sindacali e partitiche siano state condotte senza l’uso di armi non significa che esse sono estranee al principio di forza. Infatti, per vincere una battaglia sociale, occorrono non solo organizzazione e mezzi, ma anche la forza del numero. Volantinaggi, cortei, manifestazioni di piazza, sit-in, scioperi generali ripetuti e protratti finiscono per indurre governanti e imprenditori a concedere diritti. Non bisogna dunque “dimenticare che i diritti soggettivi, anche quando vengono proclamati nelle forme più solenni e moralmente vincolanti, sono delle opportunities che premiano i vincitori della lotta politica, una lotta spesso condotta, come ha sottolineato Bobbio, con l’uso della forza. I diritti sono delle (preziosissime) protesi sociali che consentono di rivendicare con maggiore possibilità di successo, e senza ricorrere nuovamente all’uso della forza, la soddisfazione di interessi e di aspettative socialmente condivise” (COSTA, ZOLO 2002: 73).
Oggi, in tutte le società DR non v’è nessuno che non sia disposto a riconoscere i cosiddetti diritti universali dell’uomo, ma, al tempo stesso, nessuno Stato DR è disposto a riconoscere un RMG. Secondo Wilson, la DR è un sistema legalistico, in cui i cittadini sono “sottoposti a leggi che pongono la sicurezza dello stato al di sopra dei desideri individuali” (1999: 34), e i diritti della persona sono spesso affermati in teoria, ma negati nella realtà. E forse ha ragione. Infatti, anche se, dopo la Dichiarazione dei diritti dell’uomo (l’«uomo» in senso generico), si sono moltiplicate le carte dei diritti internazionali riguardanti singole categorie di soggetti (la donna 1952, il fanciullo 1959, il minorato mentale 1971, la persona handicappata 1975, l’anziano 1982), spesso questi diritti sono rimasti inapplicati. Di fatto, la DR, “oltre a non fornire al «popolo» nessuna possibilità di autogoverno, non garantisce neppure, ai singoli cittadini, che i loro elementari diritti vengano rispettati” (Gambino, 169). Così, i diritti personali e sociali (salute, istruzione, lavoro, libertà di parola, associazione e circolazione) continuano ad essere negati a causa della povertà (almeno ad un cittadino su cinque, in Italia), mentre “I diritti politici [del cittadino] – vale a dire la libertà – si riducono ad un semplice diritto di voto” (KELSEN 1995: 72).
12.7.1. Il RMG come sussidio
In teoria, anche la DR potrebbe non avere nulla in contrario a dichiararsi favorevole a corrispondere ai cittadini un «minimo» per la sussistenza. “Non vi è motivo alcuno – scrive Hayek – per cui in una società libera lo stato non debba assicurare a tutti la protezione contro la miseria sotto forma di un reddito minimo garantito o di un livello sotto il quale nessuno scende. È nell’interesse di tutti partecipare a questa assicurazione contro l’estrema sventura, o può essere un dovere morale di tutti assistere, all’interno di una comunità organizzata, chi non può provvedere a se stesso” (1994: 292). Anche Piero Calamandrei ritiene opportuna “l’assicurazione a ogni cittadino di quel minimo di benessere economico senza il quale le libertà politiche, anche se riconosciute politicamente, non potrebbero essere di fatto esercitate dai non abbienti in condizioni di uguaglianza con gli abbienti” (1995: 152). Tuttavia, per la DR, non si tratta di un diritto fondamentale, ma solo di una forma di sussidio per cittadini bisognosi. La DR non è disposta a riconoscere il «diritto» ad una vita dignitosa per tutti. Questo obiettivo non fa parte integrante della sua ideologia. Si può portare ad esempio la Francia.
La Francia ha approvato un nuovo sussidio pubblico omnicomprensivo, chiamato Revenu de Solidarité Active (RSA), che entrerà in vigore il primo luglio 2009, con l’obiettivo di semplificare la giungla dei sussidi sociali. Si tratta, in concreto, di una negative income tax alla Friedman, che dovrebbe garantire a tutti i cittadini francesi, o immigrati regolari al di sopra di 25 anni, un reddito minimo di 447,91 € per una persona che vive sola, di 671,87 € per due persone, di 806,24 € per tre persone, di 940,61 € per quattro persone, aumentando di 179,16 € per ogni persona in più. In pratica, se un cittadino non raggiunge questo reddito minimo, riceve dallo Stato un sussidio equivalente, mentre chi lo supera non riceve il sussidio e paga le tasse.
Per quel che concerne l’Italia, il nostro paese non può permettersi di imitare la Francia, soprattutto a causa dell’enorme evasione fiscale.
12.7.2. Esclusione dai diritti
Il fenomeno della reale esclusione dai diritti può essere chiaramente apprezzato e soppesato solo che si tenga conto della discriminazione socio-politico-economica delle donne, che accomuna, sia pure con gradazioni diverse, tutti i paesi del mondo, compresi quelli a regime DR. Ebbene, secondo l’indice di equità di genere (GEI), in nessun paese al mondo esiste una condizione di perfetta parità fra uomo e donna (GEI = 1). Il massimo valore è quello riscontrato in Svezia (GEI = 0,86), mentre l’Italia si colloca a debita distanza dal vertice di questa classifica con un valore GEI pari a 0,61 (AA.VV. 2007: 43). La discriminazione delle donne rappresenta solo il caso più emblematico di negazione di diritti, ma non è certamente il solo. Si potrebbero aggiungere, infatti, il caso dei bambini che sono lasciati all’interno di famiglie con problemi, il caso di persone portatrici di disagio mentale, che sono escluse dallo stigma, gli omosessuali, gli inoccupati, i disoccupati, i poveri, che sono esclusi di fatto a causa della loro stessa condizione, e via dicendo.
Un parametro indiretto di negazione di diritti è l’indice di percezione della corruzione (IPC), che va da 10 (molto pulito) a 0 (molto corrotto). Qui, a parte sette paesi che fanno registrare un IPC > 9, tutti gli altri paesi sono al di sotto di questo valore, fino ad un limite minimo di IPC = 1,7. L’Italia si colloca al 41° posto (IPC = 50), ed è dunque un paese mediamente corrotto (AA.VV. 2007: 47). Ora, se è vero che ogni atto di corruzione è presumibilmente una negazione di un diritto, ne possiamo dedurre che l’effettivo esercizio dei diritti riconosciuti dalla legge non vale per tutti.
18. Il contratto politico
15 anni fa
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