Chiamo lavoro qualsiasi attività a favore di sé e di altri, ad esclusione sia dell’attività che il soggetto svolga a beneficio esclusivo di se stesso sia di quella prestata a totale beneficio di altri (per esempio, l’attività dello schiavo), anche se questa distinzione è solo teorica.
Attraverso il lavoro l’uomo fa più cose contemporaneamente: esercita la sua naturale dimensione sociale, si rende utile agli altri, impara ad assumersi responsabilità civili, acquista abilità dialettiche che contribuiscono a fare di lui un cittadino democratico, percepisce un reddito che gli consente di soddisfare i suoi bisogni ed esercitare la sua libertà. In definitiva, nel lavoro possiamo vedere un eccellente strumento di autorealizzazione della persona e un formidabile collante sociale. Questo è quanto si crede comunemente oggi in tutti i paesi cosiddetti civili, ma una volta non era così.
13.1. Il lavoro come necessità
Nell’età antica, il lavoro è stato visto, di volta in volta, “come una maledizione e una condanna o come ciò che «nobilita l’uomo», come un’attività di rango inferiore, che avvicina alla condizione animale, o come quella che esprime l’essenza della nostra specie” (Baccelli 1997: 145). Nella Bibbia, il lavoro è una condanna divina dell’uomo a causa dei suoi peccati: “Ti procurerai il pane col sudore del tuo volto” (Gen 3,19). Per Aristotele le attività manuali sono necessarie, certo, ma anche limitative del tempo libero e un impedimento alla partecipazione politica. Secondo lo Stagirita, “c’è bisogno di ozio e per coltivare la virtù e per le attività politiche” (Politica 1329a). Cicerone definisce indecorosi e degradanti tutti i lavori che si fanno per necessità o per denaro, come quelli dei mercenari, dei commercianti, tutte le attività manuali e quelle destinati a soddisfare i piaceri materiali, mentre considera onorevoli i lavori intellettuali, come la medicina e l’insegnamento (Off. I, 42, 150-1). La situazione si capovolge nella cultura cristiana. Infatti, San Paolo, Sant’Agostino e San Benedetto da Norcia si esprimono a favore del lavoro manuale, perché “l’ozio è nemico dell’anima”. Giovanni Calvino vede nel successo nel lavoro il segno di uno stato di grazia e della predestinazione alla salvezza eterna. Nella Rerum Novarum (1891) di Leone XIII, il lavoro è visto «come destino e dovere dell’uomo».
Nel mondo laico, tuttavia, il discredito del lavoro, soprattutto quello manuale, è perdurato a lungo. Ancora nell’età moderna, il lavoro è stato “considerato cosa vile da addossarsi a individui che versano in stato di schiavitù e servilismo” (SCOGNAMIGLIO 2005: 3). Insomma, per lungo tempo, gli uomini hanno disdegnato il lavoro eseguito per guadagnarsi da vivere, e hanno considerato degno di maggiore rispetto, oggi diremmo «cittadino di serie A», solo chi era ricco di famiglia da generazioni e impiegava nelle sue terre, o nelle sue aziende, lavoro servile. Ora, se un cittadino di serie A avesse prodotto qualcosa con le sue mani o con la sua mente, ciò sarebbe potuto essere giustificato solo come frutto di un suo puro diletto o del suo amore per la conoscenza, e giammai come un lavoro con fini di lucro. Dalla bassa considerazione del lavoro derivava una particolare concezione di giustizia redistributiva, che non era correlata al lavoro, quanto piuttosto a condizioni di nascita. In altri termini, era la famiglia, e non il lavoro, la principale fonte di ricchezza, tant’è vero che le classi sociali che lavoravano di più erano anche quelle più povere. Solo gli utopisti e i rivoluzionari pensavano che il lavoro dovesse essere diviso fra tutti e remunerato secondo il merito (RONCAGLIA 1996: 174).
Ai tempi di Locke questa mentalità era ancora ben radicata, come risulta da questa nota di Gordon S. Wood: “Quantunque Locke avesse sostenuto che il lavoro era all’origine della proprietà, in generale non lo si considerava ancora una fonte di ricchezza. La gente lavorava per necessità e per sfuggire alla povertà, il che spiega il disprezzo che aveva circondato per secoli le persone che lavoravano. La libertà era sempre tenuta in gran conto perché significava non dover lavorare. Era diffusa la convinzione che la maggioranza della gente non avrebbe lavorato se non ne avesse avuto la necessità” (1996: 46-7). Ancora alla fine del XVIII secolo, non solo per gli aristocratici, ma anche per i professionisti, lavorare per vivere o per arricchirsi era ritenuto poco onorevole, tant’è che il celebre studioso francese conte di Buffon, non volendo essere chiamato «naturalista», perché naturalisti erano dei professionisti che lavoravano per vivere, amava definirsi “un gentiluomo che si diletta di storia naturale”. Insomma, fino alla Rivoluzione francese il lavoro ha rispecchiato il modello della società duale: una maggioranza di persone che producono ben oltre il proprio bisogno di sussistenza e mantengono nel lusso una minoranza di persone oziose. Fino a quell’epoca si potevano agevolmente distinguere due specie di lavoro: il lavoro che una persona fa con le sue proprie mani e quello che si fa fare ad altri. Secondo Bertrand Russell, era un’etica da schiavi (1997: 13). Ora, poiché è poco plausibile che Locke ignorasse questa realtà, i casi sono due: o la sua affermazione, che la proprietà dipende dal lavoro, era un semplice auspicio, oppure era una volontaria mistificazione della realtà operata per secondi fini (vedi alla voce «proprietà privata»).
La concezione negativa del lavoro non è ancora del tutto tramontata, nemmeno nei paesi capitalistici contemporanei. Per esempio, Nietzsche, Heidegger, Gadamer e Habermas, tanto per fare alcuni nomi, esprimono perplessità circa la funzione positiva del lavoro manuale e Hannah Arendt individua nella società del lavoro una causa di impoverimento umano (1994). L’impiego sempre più massiccio di macchine nel mondo produttivo, che si associa alla sempre minore richiesta di intervento umano, ha portato molti a proclamare la “fine della società del lavoro” (Baccelli 1997: 164).
13.2. Il lavoro come diritto
È solo agli inizi del XIX secolo che “si assiste alla formazione del diritto del lavoro” (SCOGNAMIGLIO 2005: 5). Per quanto attiene l’Italia, le prime leggi che disciplinano il lavoro subordinato risalgono al 1886 (ivi, p. 6) e solo col 1960 si apre una fase di accentuata tutela e garantismo del lavoratore, che si chiude alla fine degli anni Settanta per il sopraggiungere di una crisi economico-finanziaria, che rende necessaria l’attuazione di misure atte a contenere il costo del lavoro stesso (ivi, p. 7-8), per poter competere col basso costo della manodopera dei paesi emergenti.
13.3. Il lavoro come fattore economico
Questa nuova stagione, che è tuttora in corso, si accompagna alla diffusione di una nuova cultura, che è centrata su un nuovo modo di concepire il diritto al lavoro, che non è più uno strumento di garanzia per i diritti della persona, ma, più semplicemente, uno dei tanti fattori economici legato alla necessità di abbassare il costo del lavoro e aumentare la competitività delle aziende. Si tratta, in sostanza, di un lavoro meno garantito, che eufemisticamente è chiamato «flessibile» (a termine, a progetto, interinale, intermittente, occasionale), il quale ha l’effetto sì di incrementare l’occupazione, ma al prezzo di una precarizzazione del lavoro. Al di là di queste dinamiche occupazionali, oggi, a differenza del passato, nessuno si vergogna più di lavorare e chiunque, che non sia malato di mente, si dichiarerebbe felice di svolgere un lavoro adeguato alle proprie capacità e ben retribuito. Ciò vale tanto per la DD quanto per la DR, ma con delle differenze significative.
13.4. Il lavoro DD
La DD vede nel l. il mezzo attraverso cui l’individuo eleva il proprio status economico oltre il RMG e diventa cittadino democratico, titolare di diritti personali, sociali e politici. Per uno Stato DD, il lavoro rientra dunque nel piano di promozione dell’individuo e dev’essere un diritto reale e non fittizio.
Se il lavoro è un diritto, ne consegue che lo Stato “ha bisogno di sapere quanti posti di lavoro stanno per essere offerti e domandati” (ACCORNERO 2000: 180). Esso cioè non può prescindere da una pianificazione della domanda e dell’offerta. “In sostanza, lo Stato deve adoperarsi perché l’economia crei posti a sufficienza, perché altrimenti li deve creare o procurare lui. Se mancano queste premesse, allora è meglio considerare il diritto al lavoro […] come un obbligo morale, «virtuale», cioè platonico” (ACCORNERO 2000: 180).
Trattandosi di diritto, il lavoro non può essere a tempo, ma per la vita, ossia fino a che il soggetto si senta in grado di svolgerlo e non ci sono ragioni oggettive che ne impongano la cessazione. Perciò non devono essere previsti limiti predefiniti al pensionamento, ma occorre lasciare che sia lo stesso lavoratore a decidere.
La DD non costringe alcuno ad impegnarsi in attività verso cui non si senta inclinato, non prevede un dovere di lavorare e riconosce anche il diritto al non-lavoro, non solo a coloro che sono affetti da condizioni morbose invalidanti, ma anche a coloro che, per loro libera scelta, non accettano di sottoscrivere il «contratto» col popolo e a coloro che lo rinnegano dopo averlo sottoscritto. Solo i primi, tuttavia, conservano la pienezza dei diritti politici. Gli altri invece rimarranno parzialmente emarginati nel rispetto della loro stessa volontà, avendo essi liberamente rifiutato il sistema vigente, e dovranno accontentarsi del RMG.
13.5. Il lavoro DR
L’atteggiamento della DR nei confronti del lavoro è ambivalente, e ciò trova riscontro nell’apparato legislativo, il quale, almeno in teoria, dipinge il lavoro come un diritto fondamentale del cittadino, che però, in molti casi, non può essere esercitato. Prendiamo il caso Italia. Per la legge italiana “Il lavoro costituisce la fonte di sostentamento dell’individuo e pertanto è mezzo imprescindibile per affermare la sua indipendenza e autonomia. Come tale rappresenta anche il presupposto per l’esercizio di ogni altro diritto costituzionalmente garantito” (MAZZITELLI 2008: 14). Si comprende bene dunque perché “la Costituzione impone allo Stato di assicurare il rispetto della libertà, della sicurezza e della dignità umana e la piena realizzazione del diritto al lavoro” (MAZZITELLI 2008: 42). La realtà è tuttavia ben diversa, essenzialmente perché lo Stato non riesce a garantire un lavoro per tutti.
La stessa Costituzione italiana (art. 4) è ambigua: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Ora, parlare del lavoro come «dovere» dopo che lo si è definito un diritto costituisce una palese contraddizione, che poi si riflette nella società reale. Ebbene, i fatti ci dicono tre cose: la prima è che la disoccupazione è presente in tutti i paesi DR; la seconda è che, entro certi limiti, essa viene considerata fisiologica, cioè «normale»; la terza è che in tutti i paesi DR vi sono persone che sono occupate in lavori che svolgono malvolentieri per una qualche ragione (perché considerati particolarmente degradanti o troppo gravosi o troppo rischiosi o incompatibili con le proprie condizioni fisiche o mal retribuiti), ma che si sentono costretti a fare per pura e semplice necessità. Tutto ciò indica che, in molti casi, il lavoro continua ad essere considerato essenzialmente come un dovere.
Se il lavoro fosse un diritto, come contempla la Costituzione, ci aspetteremmo, da parte dei governi, una qualche politica di pianificazione demografica che tenga conto della presunta disponibilità di posti di lavoro, oppure il riconoscimento di un reddito minimo garantito (RMG) per tutti coloro che, per una ragione o per l’altra, non riescano ad esercitare il loro diritto al lavoro. E invece non vediamo nulla di tutto ciò. La DR abbandona il disoccupato al suo destino e, se non interviene la solidarietà compassionevole della società o delle famiglie, quell’infelice andrebbe incontro a sicura morte civile nell’indifferenza generale.
Inoltre, la DR non pone il lavoro a fondamento del reddito personale e accetta che delle persone possano vivere agiatamente di sola rendita. Per queste persone, il lavoro non è né un diritto, né un dovere: non è un diritto, perché un diritto non esercitato non è tale; non è un dovere, perché di fatto quelle persone non hanno alcun bisogno di lavorare.
Infine, la DR regola l’uscita dal lavoro secondo parametri prestabiliti e uguali per tutti. Dunque, non solo impone il lavoro principalmente come dovere, ma impone come dovere anche il pensionamento, secondo modalità e tempi prestabiliti, come se tutte le persone fossero uguali, con la conseguenza che la cessazione del lavoro è negata ad alcuni, che la vorrebbero, e imposta ad altre, che non la vorrebbero, in obbedienza ad una logica che è più attenta ad esigenze burocratiche che ai bisogni delle persone.
18. Il contratto politico
15 anni fa
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