venerdì 28 agosto 2009

15. La tradizione/innovazione

Nel diritto successorio romano, il termine «tradizione» (dal latino tradere) indicava la trasmissione di un bene. Poi il suo significato si è allargato alla trasmissione generazionale di una volontà, un’idea, un valore, un comportamento, una credenza, un costume, o altro, ed è venuta a rappresentare il patrimonio culturale ereditato dalle generazioni precedenti, una sorta di «memoria collettiva» che ci accompagna in ogni momento della nostra esistenza.

15.1. Tradizione e abitudine
Un tipo di comportamento che può essere facilmente confuso con la t. è l’abitudine, o consuetudine, ossia quel particolare modo di essere e di comportarsi che il soggetto ripete automaticamente senza rendersi conto di averlo appreso da altri. Secondo Alessandro Cavalli, abitudine e tradizione sono due cose ben distinte. La prima, infatti, opera in modo per lo più inconsapevole e si mantiene in essere fintantoché ci aiuta a risparmiare fatica, consentendoci di fare in modo automatico cose che altrimenti richiederebbero parecchia energia. La t. invece è costituita di valori, che sono trasmessi e accettati “intenzionalmente e consapevolmente di generazione in generazione” (CAVALLI 1998: 652) e che talvolta appesantiscono e limitano la possibilità d’azione della persona. Ciò non vuol dire che si tratta di due cose radicalmente distinte e totalmente altre. Infatti, non solo “le abitudini possono diventare tradizioni e viceversa” (CAVALLI 1998: 653), ma possono anche coesistere.

15.2. La tradizione nella storia
Nel passato gli uomini hanno generalmente esibito un sacro rispetto nei confronti dei comportamenti appresi dalla t., in special modo per quelli più datati, nella convinzione che, per il fatto di essersi ripetuti per millenni, essi dovevano necessariamente rappresentare un concentrato di saggezza, un nocciolo di verità incontestabili. In concreto, valeva il principio secondo il quale un comportamento tramandato da una lunga tradizione doveva godere di una presunzione di verità, fino a prova contraria, fino a quando cioè non si fosse scontrato con una verità diversa e giudicata da tutti migliore. Così intesa, la t. ha a che fare con la conservazione della specie, perché consente, attraverso l’apprendimento e la memoria, di selezionare esperienze che si sono rivelate utili o non particolarmente dannose, senza doverle sperimentare partendo da zero e affrontando costi proibitivi.
Tutto questo è andato bene fintantoché gli uomini hanno vissuto in piccoli gruppi tribali, ma si è rivelato insufficiente ad affrontare le maggiori esigenze di popolazioni che si facevano sempre più estese e complesse e che, per far fronte ad una competitività crescente, fondavano le prime città e inventavano la scrittura, con tutto ciò che ne consegue in termini di trasmissione culturale, aumento delle conoscenze, nascita della letteratura e delle scienze. Da questo momento la tradizione perde la sua funzione di depositaria esclusiva del sapere e deve spartirsi il campo con uno spirito scientifico, che si va facendo a tratti intraprendente, anche se non sembra ancora in grado di insidiare l’indiscussa leadership della tradizione. Sorge però un problema. Se è vero, infatti, che la scienza contribuisce sensibilmente a migliorare le condizioni di vita degli uomini, è anche vero che essa entra in rotta di collisione con una millenaria consuetudine che assegna il potere politico alle persone più anziane e ai sacerdoti, che, nell’immaginario collettivo, sono le figure che meglio interpretano lo spirito della tradizione. E saranno proprio queste figure i principali oppositori dello spirito scientifico e dell’innovazione, oltre che i principali fautori dello status quo, ossia della conservazione del proprio potere.
Almeno fino alla Rivoluzione francese, il fronte tradizionalista ha dominato il campo, mentre la scienza ha dovuto accontentarsi di un ruolo marginale. Questo rapporto ha subito un profondo cambiamento negli ultimi due secoli, che hanno fatto registrare una prepotente avanzata dello spirito scientifico che, tuttavia, è ancora ben lontano dall’assumere un ruolo di guida incontrastata degli uomini e delle loro politiche.
Se l’uomo non avesse osato mettere in dubbio la tradizione, se non avesse cercato nuove strade e nuove spiegazioni della realtà, non sarebbe stata possibile la nascita della scienza. Il metodo scientifico si fonda per l’appunto nell’incessante ricerca di migliorare il presente, incrementare il benessere delle persone e le loro condizioni di salute, anche a costo di processare e cambiare verità consacrate da una lunga tradizione. La scienza è la conseguenza di questo modo nuovo dell’uomo di porsi dinanzi al mondo, di questo suo rifiuto di accettare supinamente quanto fissato dalla tradizione e cristallizzato nell’opinione corrente, di questo voler ricercare da sé le ragioni profonde dei fenomeni che osserva e la spiegazione della realtà che lo circonda.
I vantaggi che sono derivati all’uomo da questa mentalità di tipo scientifico sono enormi. Uno di questi è la nascita della medicina come scienza. Si pensi, ad esempio, al caso dell’epilessia, che era chiamata «male sacro», perché si riteneva che fosse conseguenza di un intervento divino. Se non ci fosse stata una persona come Ippocrate (460-377 a.C.), disposta a mettere in discussione la tradizione e a sforzarsi di trovare una spiegazione razionale dell’affezione, non si sarebbe registrato alcun progresso. Al padre della medicina è stato sufficiente criticare la concezione corrente, non già attraverso complesse procedure rigorosamente scientifiche, che non erano ancora state messe a punto, ma per mezzo del comune buon senso. Ecco il suo ragionamento: L’epilessia è ritenuta «male sacro», perché non se ne comprende la natura; in realtà, si conoscono altre affezioni, come lo stato febbrile e il sonnambulismo, che tuttavia non chiamiamo sacre, perché ci sembra di conoscerle almeno un po’; è quindi l’ignoranza che ci spinge a giudicare l’epilessia un «male sacro»; se così è, coloro che pretendono di curarla con atti di magia sono cialtroni e impostori; per giunta essi sono in contraddizione con se medesimi perché pretendono di curare mali giudicati divini con pratiche umane. Oggi siamo tutti ippocratici, la medicina odierna è ippocratica, ma, ai suoi tempi, Ippocrate fu un grande innovatore.
Sul fronte tradizionalista si schierarono due pensatori del calibro di Platone e Aristotele, che per molti secoli verranno additati come insuperabili modelli di saggezza e scrigni di verità assolute, veri e propri modelli simboli di un sapere statico e immutabile, nei cui confronti altro non si può fare che assumere un atteggiamento di accettazione rispettosa. Platone e Aristotele partivano dalla presunzione di conoscere ciò che è bene, e su questa presunzione costruirono la loro filosofia, che illuminerà il mondo occidentale fino all’età moderna. Sul fronte opposto si schierarono i Sofisti, i quali esibirono una notevole indipendenza nei confronti della tradizione e dei comportamenti codificati ed espressero una illimitata fiducia nelle possibilità della ragione, il che varrà loro l’appellativo di «illuministi greci». I sofisti non partivano da alcun partito preso e, una volta che affrontavano un argomento, lo sviluppavano alla luce della propria ragione e senza avere alcuna cognizione di dove sarebbero arrivati, con l’unico obiettivo di ricercare il vero. Ma il fronte tradizionalista si rivelò più forte e perciò i sofisti passarono alla storia con un giudizio negativo.
Il tradizionalismo trovò un formidabile alleato nel cristianesimo trionfante, soprattutto nel momento in cui apparve chiaro agli apologeti cristiani che la figura e il pensiero di Cristo potevano giustificare dottrine diverse e contrastanti. In quel momento si comprese che l’unico modo di distinguere la vera dottrina dalle eresie era quello di poterla ricondurre nell’alveo di una ininterrotta tradizione apostolica, senza dover ripartire necessariamente dalla parola di Cristo. “Le Scritture, depositarie di questa parola, potevano essere interpretate in modi differenti, tanto più che non erano ancora disponibili in una forma canonica. Per rendere univoca l’interpretazione, Ireneo, Atanasio e altri collegarono la Scrittura con la tradizione che sostenevano, così da eliminare lo gnosticismo e suffragare le proprie idee. Da quel momento, la conoscenza di Dio non si fondò più sulla parola di Dio, ma sulla parola di Dio così come l’avevano intesa gli apostoli e come l’avevano tramandata ai contemporanei attraverso un’ininterrotta catena storica” (FEYERABEND 1983: 389). La posizione della chiesa era chiara: la veridicità della propria dottrina doveva essere provata alla luce di un’ininterrotta tradizione apostolica, che partiva da Pietro e si conservava lungo la catena dei suoi successori, ciascuno dei quali era, di volta in volta, unico garante e unico legittimato ad interpretare la sacra scrittura tutte le volte che ciò avesse dovuto rendersi necessario. Ai fedeli altro non restava che aderire per fede.
Non mancavano voci fuori dal coro, come quella del teologo francese Pietro Abelardo (1079-1142), il quale sosteneva che è improponibile una verità statica e non si può credere se non ciò che si comprende. Perfino la verità rivelata non è una verità piena finché non è compresa dall’uomo. Ne risultava una sorta di primato della ragione sulla fede, anche se, in fondo, la verità religiosa non era messa in discussione.
La tradizione, come valore sommo, raggiungeva forse il suo punto più alto con la Scolastica, con quella filosofia cioè che, nel medioevo, cercava di realizzare una comprensione razionale della dottrina cristiana. Nella Scolastica non troviamo uomini che ricercano autonomamente la verità, contando sulle proprie forze, bensì uomini che si interrogano e si affannano per comprendere il disegno divino, una verità rivelata che è già data e che può essere solo scoperta. In quest’ottica conservava valore sommo la testimonianza degli apostoli e della linea ininterrotta dei loro successori, la cui autorità non si limitava all’ambito religioso, dove assumeva l’aspetto di una Chiesa gerarchica, ma si estendeva anche alla società in generale, dove diventava Feudalesimo e Impero. Tommaso d’Aquino (1225-74) fu tra i primi a comprendere come non solo Platone, ma anche Aristotele, poteva proficuamente essere arruolato alla causa della dottrina cristiana, che aveva a proprio fondamento un’ininterrotta tradizione, di cui i due filosofi greci rappresentavano fonti autorevolissime e legittimanti.
Una prima importante presa di posizione nei confronti della t. portava la firma di Lutero 1483-1546), il quale riconosceva l’autorità solo dei testi sacri, ma la negava ai ministri della chiesa e alla tradizione, che non solo non erano d’aiuto, ma che avrebbero potuto anche essere di ostacolo. Così, a ciascun fedele veniva concessa la facoltà di leggere e interpretare la Bibbia alla luce della propria ragione.
La Chiesa cattolica rispondeva a Lutero col concilio di Trento (1545-1563), in cui negava che la Sacra Scrittura bastasse da sola alla salvezza dell’uomo, negava anche il principio della libera interpretazione e riaffermava il diritto della chiesa di dare, essa sola, l’interpretazione autentica dei testi biblici. Ne conseguiva la fondamentale funzione mediatrice della chiesa e la necessità della gerarchia nella chiesa stessa.
L’Evo moderno iniziava con la nascita di una nuova mentalità orientata verso il primato dell’esperienza e dell’esperimento. Leonardo (1452-1519) pensava che la nostra grande maestra non fosse né l’autorità costituita, né la tradizione, ma l’esperienza, alla cui scuola chiunque potrebbe comprendere la natura. Copernico (1473-1543) scoprì che la terra non stava al centro dell’universo e non era nemmeno immobile, com’era opinione comune, ma occupava un posto marginale e ruotava attorno al sole. Per scrutare e studiare lo spazio, Galileo (1564-1642) si servì di uno strumento, il cannocchiale, che era aborrito dalla mentalità corrente, perché ritenuto opera diabolica. In quanto fondata sul metodo sperimentale, e non su principi metafisici, la scienza rivendicava la sua autonomia dalla filosofia e dalla fede, e tendeva a rifiutare tutto ciò che era stato accettato nel passato per tradizione o per dogma. Aristotele non era più concepito come fonte di verità.
La scienza moderna obbediva a leggi sue proprie ed era in grado di descrivere fedelmente la realtà, ma solo a patto di servirsi di un metodo valido, che escludesse la soggettività e lasciasse spazio solo a ciò che era misurabile e determinabile da chiunque, vale a dire a ciò che era oggettivo. Fu in questa temperie culturale che Cartesio (1569-1650) sviluppò la dottrina del dubbio metodico, con la quale si volgeva “contro il vacillante edificio della Scolastica; suo scopo era di screditare l’antica filosofia attaccandone la dipendenza dalla tradizione e dall’autorità” (ZWEIG 1980: 127). Il messaggio del filosofo era chiaro: l’uomo deve scrollarsi di dosso le verità dogmatiche di una tradizione che lo impastoiano e deve invece affidarsi alla soggettività dei suoi sensi e della sua intelligenza.
Questo nuovo spirito disincantato e dissacratore trovava un ottimo interprete in quel fenomeno elitario, di larga diffusione nel Seicento, che è passato alla storia col nome di libertinismo. In origine, il termine «libertino» stava a significare «libero pensatore» ma, col passare del tempo, a causa della feroce opposizione degli avversari conservatori, finì per acquistare il significato di «miscredente dissoluto». La ragione di ciò è che le idee sostenute dal movimento libertino (opposizione alla tradizione scolastica, atteggiamento critico nei confronti della religione rivelata, l’idea che tutte le religioni hanno lo stesso valore e svolgono la medesima funzione sociale, fiducia nel valore della scienza, difesa dell’autonomia della ragione) andavano contro la mentalità corrente.
Fu nel secolo dei lumi, tuttavia, che la tradizione raggiunse il livello minimo di gradimento, perché ritenuta un freno per le capacità innovative della ragione umana, il cambiamento e il progresso. Con gli illuministi il termine «tradizionalismo» assunse una connotazione negativa e venne impiegato per designare coloro che attribuivano valore a ciò che esiste da tempo, in quanto esiste da tempo e disvalore a ciò che guarda al futuro, proprio a motivo del suo guardare al futuro. Si ribaltava così un equilibrio secolare e si apriva lo scontro fra due opposte ideologie politiche, che prendevano il nome rispettivamente di «tradizionalista» e «progressista», «conservatrice» e «rivoluzionaria», oppure «destra» e «sinistra» (dalla posizione che i rivoluzionari occupavano nel parlamento francese rispetto al presidente, e cioè la destra), che esistono ancora ai nostri giorni, sia pure senza più la netta distinzione di un tempo.
“Caratteristico del modo di procedere conservatore è che la sua comprensione del particolare è rivolta all’indietro. Mentre per il pensiero «progressista» ogni particolare riceve il suo senso solo da ciò che gli sta innanzi o al di là, solo da un’utopia del futuro” (MANNHEIM 1898: 116). Ebbene, secondo gli illuministi, la tradizione non svolge una funzione positiva per l’uomo e, soprattutto quando diventa una fede assoluta e cieca, essa finisce per pesare come un macigno sul pensiero dei viventi. All’autorità della religione rivelata, gli illuministi contrapposero la religione naturale, quando non si volsero verso l’ateismo o il materialismo, e all’autorità della tradizione opposero l’autorità della ragione. Secondo il fisiologo tedesco Kaspar F. Wolff (1733-1794) l’uomo può raggiungere la felicità se usa la propria ragione, liberandosi da autorità esterne e dalla tradizione. E furono proprio le acquisizioni della ragione che presero corpo nell’Enciclopedia, la cui pubblicazione fu subito stigmatizzata da alcuni religiosi, che vedevano in essa una minaccia ai valori fissati dalla tradizione.
Il conservatorismo ritornò in auge col romanticismo, che se ne servì per criticare l’illuminismo e per favorire l’affermazione dell’idea di nazione e di identità nazionale. Anzi, possiamo dire che il conservatorismo si affermò come risultato della reazione romantica al pensiero illuminista. Da quel momento, la storia dell’idea di t. accompagnò e si sovrappose alla storia dell’idea di nazione e di Stato nazionale. Per il romanticismo non esistono epoche di decadenza o di barbarie, giacché tutto ciò che è accaduto è bene, la tradizione e lo status quo sono bene. La rivalutazione della tradizione della Germania, portò alla esaltazione della nazione tedesca e alla nascita del nazionalismo. I filosofi italiani risorgimentali si possono dividere in due gruppi: da una parte pensatori, come Romagnosi (1761-1835), Cattaneo (1801-1869) e Ferrari (1811-1876), che si schierarono sulla linea dell’Illuminismo; dall’altra Galluppi (1770-1846), Rosmini (1797-1855) e Gioberti (1801-1852), che si opposero al pensiero illuminista sensista e proposero un ritorno alla tradizione spiritualista e alla filosofia metafisica. Da qui in avanti, lo scontro ideologico tra i due fronti proseguì senza sosta.
A partire dal XIX secolo, il tradizionalismo ha cominciato a perdere terreno nei confronti del metodo scientifico, che è sembrato rispondere meglio alle sfide della modernità. Consapevole dei propri mezzi, la scienza ha preteso di essere riconosciuta come l’unico metodo valido di conoscenza (positivismo), ma ha dovuto fare i conti con le forze reazionarie, fra le quali un posto primario continuava ad essere occupato dalla chiesa, l’ultima roccaforte di un tradizionalismo duro a morire. La pretesa della scienza veniva dunque rinviata al mittente e liquidata col termine spregiativo di «scientismo», mentre il tradizionalismo continuava a reclutare sostenitori anche al di fuori della cerchia ecclesiale. È impossibile dar conto di tutti i pensatori che si sono schierati da una parte o dall’altra, e nemmeno dei principali, tanto sterminato è il loro numero. Mi limiterò, pertanto, a pochi nomi, che ho scelto quasi per caso, tra quelli che mi sono sembrati più rappresentativi, e cioè Nietzsche, Gadamer e Popper.
Nel libro Umano troppo umano, Nietzsche (1844-1900) sostiene che anche ciò che si definisce spirituale e trascendente, anche ciò che è morale o metafisico, altro non è che il prodotto di fattori «umani troppo umani». E allora, alla domanda «Che cos’è la tradizione?», Nietzsche risponde: “Un’autorità superiore, cui si obbedisce non perché comanda ciò che è a noi utile, ma perché lo comanda” (1988: 37). Come dire: la tradizione è un’autorità fine a se stessa.
Gadamer (1900-2002) osserva che una “tendenza generale dell’illuminismo è proprio quella di non ammettere nessuna autorità e di decidere tutto davanti al tribunale della ragione” (1983: 320). Per gli illuministi “Non è la tradizione, ma la ragione la fonte ultima dell’autorità. Ciò che è scritto non è necessariamente vero. Noi possiamo saperne di più” (1983: 320). In polemica con questa posizione, Gadamer afferma che la ragione umana non è padrona di se stessa, né può recidere i legami col passato, ma anzi la tradizione viene prima del giudizio personale perché, senza di essa, è impossibile interpretare un testo o comprendere la realtà.
Col passare del tempo, i tradizionalisti fanno sempre più fatica a giustificare le proprie tesi, mentre gli innovatori diventano sempre più disinvolti e sicuri di sé, perché molti fatti stanno dalla loro parte, confortati dai progressi fatti registrare dalla scienza negli ultimi secoli, che sono così numerosi e notevoli, in tutti i campi dello scibile, da incidere profondamente sulle nostre condizioni di vita e sulla nostra longevità, oltre che determinare e caratterizzare la cultura contemporanea. Mi limito a ricordare Karl Raimund Popper (1902-1994), che, nella Società aperta e i suoi nemici, sferra un duro attacco a Platone e al suo modello di società organicista, rigida e chiusa, al cui posto propone una società aperta e democratica, in cui i cittadini siano liberi di pensare con la propria testa. La condanna di Platone è totale e senza appello. È come assistere al crollo di un mito, che ha dominato la scena per oltre duemila anni. È caduto Aristotele, è caduto anche Platone, ma il tradizionalismo non è caduto, e nemmeno si vede ancora all’orizzonte il ritorno dei sofisti. Evidentemente non sono ancora maturi i tempi per un’egemonia incontrastata del sapere scientifico. Infatti, c’è ancora un temibile nemico in campo: la chiesa.
Un sistema politico può essere valutato anche da come si pone nei confronti della tradizione.

15.3. La tradizione/innovazione DD
La DD assume che “è di per sé evidente, senza alcun bisogno di dimostrazione, che le epoche storiche non sono più infallibili degli individui” (MILL 1997b: 22). Essa vede nella t. un prezioso punto di partenza per le riflessioni individuali, ma sa che il suo destino fisiologico è quello di essere superata dall’apporto creativo del soggetto pensante. La DD sa che “Quando la norma di condotta non è il carattere individuale ma le tradizioni o le consuetudini degli altri, viene a mancare uno dei principali elementi della felicità umana, e l’elemento sicuramente principale del progresso individuale e sociale” (MILL 1997b: 65).
In definitiva, la DD assegna una posizione di primo piano all’individuo presente, che guarda sì al passato, ma sempre pensando al futuro. “L’uomo non deve lasciarsi corrompere né sopraffare dalle cose esterne – ammonisce Seneca –, deve puntare esclusivamente su se stesso, fiducioso nelle sue capacità e pronto anche a risultati indesiderati, artefice della sua vita” (La vita felice VIII, 3). Per il filosofo latino, la tradizione non è un valore da perseguire, poiché l’errore, trasmesso di generazione in generazione, ci rovina. “Così ci passiamo di mano in mano l’errore che ci travolge e ci manda a precipizio. Andiamo a morte seguendo l’esempio altrui; potremo guarire, non appena sapremo separarci dalla folla” (La vita felice I, 4). Insomma, la t. è importante sì, ma non tanto da dover essere considerata una verità eterna e meritare un rispetto sacro.

15.4. La tradizione/innovazione DR
“Gran parte della storia dell’umanità ha visto la tradizione in posizione dominante” (FERRARESE 2002: 13), che non è mai venuta meno nonostante il tentativo operato dall’Illuminismo di sciogliere il presente dai vincoli del passato. Ancora oggi, infatti, la t. continua ad essere ritenuta vincolante, quasi come fosse una religione. Un valore, che sia stato tramandato nei secoli, assume caratteri di sacralità e diventa pressoché intoccabile, perché, così si crede, esso rappresenta la saggezza dei nostri padri e non dev’essere messo in discussione. Quel che ci hanno insegnato da bambini è bene. Quel che fa parte della nostra storia è bene. La cultura, la lingua, i gusti, i costumi, che ci sono stati trasmessi, sono tutti beni da custodire e tramandare ai nostri figli. Nello stesso tempo, tendiamo a coprire con un velo di indifferenza o sottovalutare tutto ciò che è diverso o straniero.
In pratica, così facendo, non pensiamo con la nostra testa, ma utilizziamo schemi precostituiti, che ci vengono forniti dall’esterno, ci conformiamo pedissequamente a ciò che è, e non badiamo a ciò che potrebbe o dovrebbe essere, diffidiamo delle novità, anche quando la nostra ragione ci suggerisce che sono, o potrebbero essere, un bene per noi e ci conviene prenderle in considerazione e, se è il caso, accettarle. In conclusione, a causa di un’eccessiva elevazione valoriale della t., sfruttiamo poco la nostra intelligenza, la nostra creatività, la nostra capacità di giudizio e il nostro capitale umano.
L’avversione nei confronti di ciò che è nuovo è così radicato nella nostra cultura che, qualora per una qualsiasi ragione si dovesse avvertire l’esigenza di un cambiamento, spesso si ricorre allo stratagemma di camuffare la novità o travestirla di antico. È quanto sarebbe successo, secondo Eric J. Hobsbawm e Terence Ranger, negli ultimi due secoli, per far sì che venisse accettata l’idea di nazione: presentarla come se fosse un’istituzione di lunga e venerabile tradizione. Secondo i due studiosi, il risultato di questo modo di procedere è che molte cosiddette «tradizioni» che ci vengono presentate come antiche e immutate “hanno spesso un’origine molto recente, e talvolta sono inventate di sana pianta” (1994: 3). Insomma, se l’abitudine serve a risparmiare tempo e fatica, la t. serve a fare accettare dalle masse ciò che qualcuno desidera, ma è incapace di imporlo unicamente sulla base della propria autorità.

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