venerdì 28 agosto 2009

16. La religione

In un libro sulla democrazia politica non poteva mancare un adeguato cenno sulla r., per la semplice ragione che la r. condiziona sia la politica che la democrazia, soprattutto quando si tratta di una r. istituzionalizzata e strutturata gerarchicamente, come la r. ebraico-cristiana, di cui mi occuperò in questa sede, dando per scontato, anche se non dimostrato, che quanto dirò può essere applicato ad ogni altra religione gerarchizzata.

16.1. Significato e funzioni della religione
Cominciamo col chiederci che cos’è e a che cosa serve la religione? Il fenomeno religioso si affaccia nella storia dell’uomo in epoche molto remote, verosimilmente nel paleolitico, e origina da alcuni tratti psicologici dell’ominide, come l’ignoranza, la paura e il bisogno di certezze. L’ominide non sa perché la montagna sputa fuoco, perché la terra trema, perché esistono le malattie e la morte, però ne ha paura e avverte il bisogno di sapere o essere rassicurato. Un giorno qualcuno gli spiega che dietro a questi fenomeni c’è uno spirito potente e terribile che, quando è in collera, diventa distruttivo, ma che può essere placato con opportuni riti e sacrifici. Quel giorno nasce la religione, che però è sostanzialmente di tipo antropomorfo e magico.
Il termine «magia» verrà coniato, molti millenni dopo la sua comparsa, dai greci, che lo usavano per designare le pratiche cultuali che i sacerdoti persiani (detti «magi») utilizzavano in funzione divinatoria e guaritoria, ma anche come vera e propria arte fattucchiera, ossia attribuendo potere taumaturgico a parole, gesti e oggetti inanimati. Queste pratiche verranno poi condannate, prima dai romani, che le reputarono irrazionali e vacue, e poi dai cristiani, che vedevano in esse un’opera demoniaca e a cui contrapponevano la «religione», ossia la fede in Dio, un essere spirituale e personale, creatore e padre amorevole.
“Le azioni che si presentano come religiose o magiche – scrive Weber – debbono venir compiute «affinché tutto ti vada bene e tu viva a lungo sulla terra»” (1999: II, p. 105). Sia la religione che la magia aiutano l’uomo a soddisfare alcuni suoi bisogni, e lo fanno servendosi di appositi mediatori: i sacerdoti e gli stregoni. I primi influenzano gli dèi per mezzo della venerazione e della preghiera ritualizzate, i secondi agiscono sui demoni per mezzo di riti magici. Il risultato è lo stesso: allontanare il male o attirare il bene. Pur essendo diverse sul piano ideologico, magia e religione hanno in comune alcune proprietà funzionali, come quella di spiegare il male, fornire conoscenze certe, fissare valori immutabili, rassicurare e tenere sempre viva la speranza, e possono tranquillamente convivere nella stessa persona. E infatti, la magia non è scomparsa con l’affermazione della r., ma continua a svolgere un ruolo variabile. Secondo Vittorio Messori, essa tende a riapparire laddove la r. declina: “dove Dio muore, rispunta la paura del diavolo; dove il prete batte in ritirata, riecco lo stregone; dove la fede scompare, irrompe la superstizione. È una lezione costante della storia” (1993: 61).
La r. non spiega la realtà col metodo razionale-scientifico, che è faticoso, richiede impegno e suscita dubbi, ma in modo irrazionale-emotivo, che è alla portata di tutti e genera solo certezze (funzione conoscitiva), dà la sensazione di poter controllare la natura (funzione di potenza), esorcizza la paura (funzione rassicurante), consola gli afflitti e dà anche ai soggetti più deboli e sfortunati una speranza di giustizia (funzione di speranza), induce al rispetto dei codici morali imposti dall’autorità politica in virtù del timore del dio (funzione etica), alimenta la fiducia in se stessi, grazie alla consapevolezza di essere protetti da un dio (funzione psicologica), favorisce la coesione sociale e la coscienza di essere tutti figli dello stesso dio e membri dello stesso popolo (funzione sociale), conferisce un particolare status a colui che fa da intermediario fra il dio e l’uomo (funzione gerarchica), dando così origine alla stratificazione sociale a al potere (funzione politico-paternalistica).
La r. è inoltre in grado di giustificare ogni sorta di evento, privato o pubblico, senza la necessità di dover fornire delle prove: l’ingiustizia, la violenza, la sfortuna e ogni altro fenomeno socialmente rilevante, anche il delitto più efferato e incomprensibile, trovano adeguata spiegazione in un quadro fatto di perdoni, disegni, promesse, redenzioni, riscatti, espiazioni, immortalità e giustizia finale, che, sapientemente armonizzati dai sacerdoti, sortiscono sorprendenti effetti sui sentimenti delle persone, motivandole all’azione o alla quiete. Si potrebbe continuare all’infinito, ma tutte queste funzioni cesserebbero o perderebbero di efficacia se non ci fosse la convinzione che le verità in ambito religioso siano, per definizione, più vere di altre.
La funzione religiosa di maggiore importanza per il nostro discorso politico è proprio quella di offrire risposte certe a tutto, sgombrando il campo dal dubbio e creando una piattaforma di presunte certezze incrollabili, che danno alla persona la sensazione di poter dominare la realtà senza ricorrere a mezzi umani. L’uomo religioso si comporta come se sapesse tutto, anche quando non sa niente, ed è in virtù delle sue presunte certezze inossidabili che egli non avverte il bisogno di impegnarsi nello studio e nella ricerca, ma affronta con serenità ogni problema e si scaglia contro qualsiasi nemico, sicuro che il suo dio, in un modo o nell’altro, lo aiuterà ad imporsi. La r. esorcizza l’ignoranza e, così facendo, sostiene il morale delle persone, per le quali “è necessario avere delle conoscenze, anche se sbagliate, piuttosto che non averne affatto” (BEATTIE 1978: 288).
Ma perché la conoscenza sortisca il suo effetto rasserenante e catartico, essa deve apparire certa. Il dubbio, infatti, può per molti risultare insostenibile in un triplice senso: o perché li costringe ad un immobilismo improduttivo e ansiogeno, o perché non li motiva abbastanza, soprattutto nelle azioni di conquista o di resistenza eroica, o perché li spinge ad affinare le loro conoscenze, il che spesso sembra comportare risultati modesti se paragonati allo sforzo necessario per conseguirli. Ebbene, la r. garantisce la veridicità di ciò che afferma con l’autorità di chi parla a nome di un dio, ed è perciò in grado di offrire un pacchetto di verità assolute, buone a spiegare ogni cosa e, per di più, senza richiedere sforzo alcuno, rispondendo così a quel bisogno di certezze, che è propedeutico all’azione. “Dogmatizzare è un mezzo per soddisfare una bramosia di «certezza»” (RADNITZKY 1997: 48), che, a sua volta, è funzionale per una volontà di potenza. Nel fondamentalismo “l’incertezza non esiste” (THUROW 1997: 256), ma la capacità d’azione è massima.

16.2. Il ruolo dei sacerdoti e dei profeti
Una caratteristica fondamentale della r. è quella di ricondurre le sue verità dogmatiche ad un essere divino personale provvisto di volontà. Di qui la necessità di ricorrere a persone dotate di speciali attributi, tali da farle ritenere capaci di cogliere i segni che promanano dallo spirito divino, per poi trasmetterli e spiegarli ad altri. È evidente che chi sa leggere e interpretare la volontà degli dèi esercita un potere politico sulla comunità. Le prime figure in tal senso sono lo stregone e lo sciamano: il primo agisce sui demoni per mezzo di riti magici, il secondo impetra i favori del dio per mezzo della preghiera e del culto. Il sacerdote agisce in virtù del proprio ufficio, che si inquadra nel corso di una lunga tradizione; il profeta agisce in virtù del proprio carisma personale e al di fuori di ogni schema prestabilito. Il sacerdote è uno che guarda indietro e tende a perpetuare l’ordine vigente; il profeta è uno che rompe col passato e crea un ordine nuovo. Ma lo scopo è lo stesso: allontanare il male o attirare il bene.

16.3. La personalità del supplice
Oltre a ciò, la r. offre alle persone un’arma assai economica e redditizia, la preghiera, che consente loro di agire sugli eventi e propiziarsi i favori del proprio dio, senza particolari sforzi e con prospettive limitate solo dalla propria immaginazione. La preghiera è una richiesta fatta ad un dio con atteggiamento di umiltà e sottomissione, un’implorazione, una supplica, cui si possono riconoscere due attributi sostanziali. Il primo si riferisce alle parole pronunciate o pensate dal fedele, di solito con l’intenzione di rivolgere lodi o promesse alla divinità, al fine di indurla a concedergli i suoi favori, esaudire un suo desiderio, accordargli aiuto materiale o sostegno morale, perdonare i suoi errori, infondergli sicurezza e speranza. Il secondo attributo della p. si riferisce al tipico atteggiamento di inferiorità assunto dal supplice, che ricorda quello del bambino di fronte all’adulto. Il supplice si aspetta che la sua richiesta venga soddisfatta proprio in virtù del suo atteggiamento infantile, della sua condizione di debolezza, e non oserebbe mai tentare di risolvere un problema con le proprie forze, perché lo riterrebbe presuntuoso e blasfemo. Con la stessa logica, egli esprime il bisogno di rivolgere le sue preghiere anche a figure umane (un re, un signore, un leader) e crea le premesse per il costituirsi di una società duale. In definitiva, la r. rappresenta il terreno ideale per lo sviluppo della tipica personalità di chi ha bisogno di un capo, di un ordine gerarchico, di verità dogmatiche a cui credere. Siamo agli antipodi dello spirito democratico.
Nella pratica quotidiana i fedeli imparano a modulare i propri atti di fede sulla base della verifica dei risultati, che, tuttavia, spesso contrastano con le aspettative e con i contenuti delle preghiere. È per questo che buona parte dell’impegno delle gerarchie religiose è incentrato nel “trovare dei mezzi atti a giustificare l’atteggiamento renitente del dio, in modo tale che il suo prestigio non ne risulti sminuito” (WEBER 1999: 129). In concreto, quando le cose vanno male, l’autorità religiosa cerca di scagionare il dio, addossando ogni responsabilità sugli uomini. “Si fa allora strada la convinzione che non dipenda dalla debolezza del proprio dio se i nemici vincono o se altre sventure cadono sul proprio popolo, poiché l’ira del dio colpisce i suoi fedeli a causa delle loro violazioni degli ordinamenti etici che egli custodisce; che i propri peccati ne sono la causa e che il dio prende queste decisioni sfavorevoli proprio per correggere ed educare il popolo che ama” (WEBER 1999: 138). Si determinano così le condizioni per il radicamento dell’idea dell’incapacità dell’uomo di comportarsi in modo tale da poter meritare la benevolenza del dio, ma anche il bisogno di essere liberati, affrancati, riscattati da questa terribile condizione, il cosiddetto bisogno di redenzione.

16.4. Sacerdoti e re
La figura del re si afferma, insieme alla guerra, circa cinquemila anni fa e si affianca a quella, già esistente, del sacerdote. Le due figure si collocano ai vertici della piramide sociale, stabilendo fra loro un rapporto diretto e stretto, che può sfociare in una commistione (la funzione sacerdotale e regale sono unite nella stessa persona), in una competizione (sacerdote e re lottano per la leadership) o in un compromesso (il potere politico è esercitato dal re con l’appoggio del sacerdote, che riceve in cambio una serie di privilegi). In ogni caso, e per tutto il corso della storia, re e sacerdoti, con le rispettive cerchie di parenti, amici e sostenitori, costituiscono le élites dominanti e si distinguono dalla massa popolare per una nettamente maggiore potenza economica e militare. In virtù di questa evidente superiorità, essi assumono un ruolo paterno e si arrogano la funzione di custodire e prendersi cura dei sudditi-bambini, allo scopo, dicono, di conservare i favori della divinità e di preservare l’unità nazionale, in realtà per conservare il loro status sociale. Solo loro possono usare la propria testa e comportarsi da persone libere e, come tutte le persone libere di questo mondo, si distinguono nel bene e nel male, facendo cose eccelse e cose orribili. Re e sacerdoti sono gli artefici del progresso umano e degli stermini di massa, della pace e della guerra, della liberalità e della schiavitù, della cultura e dell’oscurantismo. Grazie al loro sterminato potere, essi producono ideologie funzionali ai propri interessi di dominio, mentre il popolo-bambino, che non ha i mezzi per decidere, innovare e creare, rimane escluso dai giochi che contano. Col passare del tempo, re e sacerdote si specializzano: il primo diventa simbolo della forza militare, il secondo l’interlocutore privilegiato del dio. Entrambi esercitano il potere politico, cioè il potere di decidere per tutti, che, essendo fondato e legittimato dalla divinità, si istituzionalizza e diventa stabile.

16.5. Politeisti e monoteisti
I popoli politeisti non hanno difficoltà a stabilire una gerarchia fra gli dèi e spiegano, agevolmente, un qualsiasi evento negativo, per esempio una carestia, un’epidemia, o una sconfitta militare, affermando che il proprio dio tutelare ha dovuto soccombere nei confronti di un dio più potente di lui. La gerarchia fra gli dèi ricalca quella che esiste fra gli uomini, sia pure ad un livello superiore, e dà ragione di un quadro politico ben noto agli studiosi di storia antica, nel quale ogni uomo, ogni clan, ogni popolo sa di essere soggetto al volere delle sue divinità tutelari ed è consapevole che dovrà condividerne il destino. Nella pratica quotidiana gli uomini si organizzano come possono, si compattano intorno ai propri dèi, cercano di coglierne e interpretarne i segni, lottano, si prodigano e, alla fine, trionfano o vanno incontro a terribili disfatte. In ogni caso, tutto ciò che accade rientra nell’imprevedibile intreccio fra ordine naturale delle cose ed eventi sovrannaturali, legato alla perenne competizione tra potenze divine e umane di diversa grandezza.
Per i popoli monoteisti, invece, è più difficile spiegare le calamità e gli insuccessi e, per non essere smascherate, le classi dominanti devono confidare nell’ottusità della gente, nella loro dabbenaggine e credulità, così da poter raccontare loro qualsiasi frottola ed essere ugualmente creduti. Ed è qui che la r. compie il suo capolavoro, che consiste nel far credere le cose più inverosimili, come, per esempio, quella che alcune persone sono diverse dalle altre, perché sono state prescelte da un dio e conoscono la verità. È solo quando l’uomo comincia a credere che il potere politico derivi da un dio, che possono affermarsi i regimi teocratici, quali sono quelli delle città-stato mesopotamiche, dell’antico Egitto, della Roma imperiale e delle moderne monarchie, in cui si ritiene che il sovrano sia collocato sul trono da Dio, che la sua azione di governo sia divinamente ispirata e che la sua volontà debba avere valore di legge sovrana e insindacabile. Insomma, se la fonte del potere è Dio, anche il prodotto del potere, ossia la politica, è di natura divina e si giustifica da sé. È su questa base che una minoranza si arroga il diritto di comandare su una massa di persone che vengono appositamente lasciate in uno stato di minorità e subalternità.
Origina così la società duale di tipo moderno, ossia provvista di istituzioni e regolata da codici di norme che vengono attribuiti a Dio e fatti osservare con la forza o con la minaccia di ricorrere alla forza. Insomma, la società duale nasce e si perpetua grazie al fattore religioso, il quale, evidentemente, non risponde solo ai bisogni delle persone, ma anche ai bisogni degli Stati, i quali giammai avrebbero potuto affermarsi e produrre istituzioni stabili solo in virtù del principio di forza.

16.6. Religioni monoteiste e Democrazia
Tutte le religioni svolgono le stesse funzioni psicologiche e rispondono agli stessi bisogni degli uomini, lo abbiamo già detto, ma non tutte le religioni si strutturano in centri di potere. Quando ciò accade, l’assetto sociale e politico ne risulta pesantemente condizionato in senso antidemocratico, come dimostrano i paesi dove forte è la presenza delle tre religioni monoteiste: ebraismo, islamismo e cristianesimo. Qui ci limiteremo a prendere in considerazione le religioni ebraica e cristiana.

16.6.1. L’ebraismo
Particolarmente interessante appare la riflessione politico-religiosa degli antichi ebrei, che finiscono per addossare sugli uomini ogni responsabilità sugli eventi della vita quotidiana delle persone e sulle vicende storiche, mentre a Dio vanno solo i meriti: se le cose vanno male, se ci sono le malattie, se c’è la morte, se c’è l’ingiustizia, se il re viene sconfitto, la colpa è solo ed esclusivamente dell’uomo; Dio non c’entra. Al contrario, quando le cose vanno bene il merito è unicamente di Dio. Così facendo, essi salvano, sì, la dottrina del monoteismo, sulla quale poggia ogni loro speranza, ma gettano discredito sulle istituzioni umane, compresa la monarchia, apparentemente senza accorgersi delle contraddizioni in cui si cacciano. Infatti, se il re è insediato da Dio, perché dovrebbe fallire? E, se il re fallisce, non dovrebbe essere Dio il responsabile primo? Se poi il re trionfa, perché non attribuire a lui almeno una parte del merito? Insomma, perché quando le cose vanno bene il merito è di Dio, quando vanno male, la responsabilità è unicamente del re e dei suoi sudditi?
Sotto l’aspetto strettamente religioso, la dottrina ebraica ha una sua coerenza perché, nel momento in cui si è stabilito che Dio è perfetto, non è più possibile addebitare a lui alcun errore, né è possibile non ascrivergli il merito di tutto ciò che va bene. Ma sul fronte umano rimane una certa discrepanza fra teoria e realtà.
In teoria, l’ebraismo dovrebbe essere compatibile con una società trasversale, egualitaria e anarchica, i cui membri sono tutti figli dello stesso Dio, che governa il mondo dall’alto dei cieli. In realtà, il potere politico è affidato a figure umane, prima il re e poi il sacerdote, che rimangono fallibili anche dopo aver ricevuto l’investitura divina. Gli ebrei rimangono invischiati in questo stato di confusione, dal quale non riescono a venir fuori (MUNI 1990), e il loro esempio ci può servire per capire quanto l’elemento religioso può incidere sulla politica dei popoli.

16.6.2. Il cristianesimo
Alle origini, il cristianesimo predica il comandamento dell’amore fraterno ed evoca i valori morali dell’uguaglianza e della solidarietà fra gli uomini, che sono scarsamente compatibili sia con un sistema politico piramidale e gerarchico, sia con l’estrema povertà e l’estrema ricchezza. Nei decenni che seguono la morte di Gesù, il cristianesimo è una r. poco nota, illegale e minoritaria, e le comunità dei cristiani se ne stanno ai margini della società in attesa di un imminente avvento del Regno di Dio. Si tratta di un movimento spontaneo e minoritario, che ama definirsi il «sale» che dà gusto alla vita o il «lievito» che fa crescere l’amore nel mondo, ma, dopo meno di tre secoli, questo cristianesimo cambia e assume i caratteri dell’istituzione politica, con tanto di edifici di culto e di gerarchia. A partire da Costantino, Chiesa e Stato vanno a braccetto e si sostengono a vicenda, sfruttando il naturale bisogno di religione degli uomini per le proprie logiche di potere. Inizialmente è Costantino il vero capo della Chiesa e questa non dispone di un potere proprio, ma lo riceve di riflesso dall’imperatore, il quale annovera fra i suoi titoli quello di «pontefice massimo», convoca concili, nomina e destituisce i vescovi, condiziona la composizione delle controversie dottrinali e, perfino, la definizione dei dogmi. Il papa ancora non esiste. Egli è solo un vescovo fra i tanti e un suddito, ma, già dal IV secolo, la Chiesa di Stato, quella che si chiamerà «cattolica», può servirsi del potere politico derivato per imporre a tutti la sua verità e scrivere pagine di storia davvero funeste.
La caduta dell’impero d’occidente pone il vescovo di Roma in una condizione del tutto inconsueta: da un lato egli è sottoposto, come sempre, all’imperatore, che ora risiede a Bisanzio, dall’altro vive a stretto contatto con le popolazione barbariche, che si avvicendano in Occidente e lo governano pur senza averne titolo (formalmente l’Occidente appartiene ancora all’imperatore romano). Alla fine, in Italia si insediano stabilmente i Longobardi, che stabiliscono col vescovo di Roma rapporti poco amichevoli, mentre in Francia regna la dinastia dei Merovingi. Pipino il Breve, padre di Carlomagno, è un semplice «maestro di palazzo» o «maggiordomo» ma, di fatto, il potere è nelle sue mani. La situazione è favorevole ad un’intesa fra Pipino e il vescovo di Roma, che al momento è Stefano II: il primo ha bisogno di un’autorevole legittimazione, il secondo desidera liberarsi dall’intollerabile peso dei Longobardi e affrancarsi dall’ingerenza dell’imperatore bizantino.
Stefano II si muove con grande determinazione e, furbescamente, fa redigere un falso documento, dove si legge che Costantino, per ringraziare papa Silvestro, che lo aveva guarito dalla lebbra, gli ha conferito il potere temporale su Roma e l’Italia e il primato su tutti i vescovi e sull’Occidente intero. Il documento, che passerà alla storia col nome di «donazione costantiniana», viene fatto opportunamente circolare, affinché siano a tutti noti i «diritti» del papa. In un’epoca in cui i Carolingi hanno tutto l’interesse di garantirsi l’appoggio della Chiesa, non c’è da meravigliarsi che nessuno pensa di verificare non dico l’autenticità, ma nemmeno la plausibilità della «donazione», la quale perciò viene accettata come autentica, senza tante discussioni. Per quanto abbia interesse a compiacere Stefano II, Pipino non può certo riconoscergli il potere sull’Occidente e si limita a donargli Roma insieme ad un vasto territorio dell’Italia centrale, che i Franchi hanno sottratto ai Longobardi. Inizia così il potere temporale del vescovo di Roma, che ora, ma solo ora, è divenuto capo supremo riconosciuto della Chiesa d’occidente, ossia papa. Riconoscente, anche se non del tutto soddisfatto, Stefano II incorona Pipino e Carlomagno rispettivamente re dei Franchi (754) e imperatore del Sacro Romano Impero (800), conferendo loro quella legittimazione che vanno cercando da tempo, ovviamente nel nome di Dio. Il fatto è inconsueto e deve apparire di certo molto singolare dal momento che, in pratica, viene a ribaltare una consuetudine consolidata, secondo la quale è il papa che riceve il potere dall’imperatore, e non il contrario. Ma tant’è, e le conseguenze non si fanno attendere. Infatti, già ai tempi di Carlomagno, si registrano le prime guerre di r. contro i Sassoni, che vengono costretti a convertirsi sotto la minaccia della pena di morte.
Da qui in avanti, i papi si muovono nello scacchiere internazionale da politici consumati e giungono a sfidare l’imperatore per il dominio universale, appellandosi ai «diritti» che derivano loro dalla «falsa donazione» e ad alcune ardite teorie elaborate dagli intellettuali del tempo, che indicano nel papa il capo assoluto di tutto l’Occidente, anzi di tutta la terra, dinanzi al quale re e imperatori devono inchinarsi. L’imperatore certo non può condividere quel comportamento e reagisce con sdegno e determinazione, ma, poiché il papa non intende recedere, ne nasce una contesa, che terrà occupate le migliori menti tra la metà dell’XI secolo e gli inizi del XIV e che conoscerà momenti di grande tensione. Come se ciò non bastasse, a partire dall’XI secolo, in politica estera, i papi bandiscono crociate contro gli infedeli musulmani, dando così inizio ad uno scontro fra civiltà senza precedenti, mentre, in politica interna, organizzano la caccia alle streghe e la persecuzione degli eretici.
Col XIV secolo, l’idea stessa di potere universale comincia a vacillare sotto l’incalzare delle emergenti monarchie, ed è proprio il re di Francia, Filippo il Bello, che, costringendo il papa a trasferire la sua sede in terra francese, ad Avignone (1309), dove rimarrà per circa settant’anni, lo tiene sotto il suo completo controllo e se ne serve per gli interessi della corona. Ritornati a Roma, i papi riprendono la loro politica di grandezza, ma ormai i tempi sono irrimediabilmente cambiati e i centri di potere locale (le monarchie) hanno definitivamente reso anacronistica l’idea di un potere universale, sia esso del papa o dell’imperatore. I papi puntano allora su un altro tipo di dominio universale, quello spirituale, senza rinunciare, tuttavia, alle ambizioni politiche e materiali. Tra le conseguenze di questa nuova politica vanno ricordate la pressione missionaria sulle popolazioni del Nuovo Mondo e le guerre di religione in Europa. Per far cassa, i papi ricorrono perfino alla vendita delle indulgenze, fatto questo che induce molti nobili spiriti a fondare, per reazione, ordini mendicanti e che farà indignare Lutero a tal punto da indurlo allo scisma. Ma il papa non cambia politica e, mentre proclama la Chiesa unica depositaria della Verità, non dà tregua ai dissenzienti.
In Francia, nel XVIII secolo, l’alto clero costituisce il Secondo Stato e, insieme al Primo Stato (la nobiltà), vive nell’ozio e nel lusso, a spese del popolo. Tale situazione viene rovesciata con la forza dalla Rivoluzione e, tuttavia, il papa non rinuncia alla sua politica di potenza e si oppone strenuamente ai princìpi del liberalismo democratico e dell’individualismo propugnati dalle Rivoluzioni americana e francese. Nel 1832 Gregorio XVI giunge a condannare la libertà di stampa e la libertà di coscienza! Ma i tempi incalzano e, dopo il 1859 (anno della pubblicazione de L’origine delle specie di Darwin), scoppia il caso della teoria evoluzionistica, che mette in dubbio la verità della Bibbia. L’opposizione della Chiesa è durissima.
Intanto i moti nazionalistici, che tendono a creare un’Italia unita, minacciano il potere temporale del papa. Accortosi che il suo regno gli sta sfuggendo di mano, Pio IX rivela doti di grande combattente e, approfittando del fatto che i vescovi sono riuniti in concilio, li induce ad accettare il dogma dell’infallibilità papale. Lo scopo è evidente: forzare l’opinione pubblica e il mondo intero in favore della conservazione dello Stato pontificio. Se il papa, che è infallibile, stabilisce che il suo potere temporale è un diritto sacrosanto, come si può negarglielo? Il dogma è approvato in tempi rapidissimi, quando già i bersaglieri sono alle porte di Roma, ma non sortisce gli effetti sperati. Nel 1870, Roma e lo Stato pontificio vengono annessi all’Italia e l’Unità nazionale è quasi del tutto compiuta. Il papa protesta con veemenza ed esibisce un atteggiamento sdegnoso e polemico, allo scopo di richiamare su di sé e sulla propria triste condizione l’attenzione compassionevole della pubblica opinione e delle autorità politiche internazionali; rimane chiuso nei suoi palazzi e si proclama prigioniero politico, imitato dai suoi successori. L’atteggiamento dei papi cambia solo nel 1929, anno del Concordato con Mussolini, e solo allora essi si rassegnano a rinunciare al potere temporale e mostrano di accontentarsi solo del potere spirituale.
Dopo il Concordato, il papa può esercitare un’indiscussa autorità morale e, se non ha più un regno, può tuttavia contare su un’organizzazione e un impero economico a livello mondiale, il che gli consente di condizionare le scelte politiche di molti governi, che vengono ancorate su posizioni tradizionalistiche e antiriformistiche. Al centro della dottrina sociale della Chiesa c’è la famiglia, la logica di gruppo e l’organizzazione piramidale della società. Socialismo e capitalismo sono fatti oggetto di critica, ma la proprietà privata è tollerata e così pure la ricchezza e la povertà. Su tutto domina l’Unica Verità, che, unita al principio d’obbedienza, favorisce l’affermazione di uno spirito di tipo assolutistico e autoritario, che si oppone non solo alla democrazia, ma anche a tutte quelle acquisizioni della scienza (manipolazione genetica, fecondazione assistita, clonazione, utilizzo di cellule staminali di embrioni al di sotto di 14 giorni a scopo di ricerca e terapia) o a quelle questioni morali (contraccezione, aborto, divorzio, coppie di fatto, eutanasia), che chiamano in causa la libertà responsabile dell’individuo. Su tutti questi fronti la Chiesa oppone i suoi veti e pretende di imporre le sue verità eterne sulle mutevoli coscienze delle persone.
La Chiesa è contraria alla libertà disgiunta dalla verità e ammette un solo modo di essere liberi: quello di sottomettersi alla sua verità. Ma che differenza c’è tra questa posizione e quella di un qualsiasi dispotismo? “È ovvio che la Chiesa desidera che il proprio insegnamento sia liberamente e consapevolmente accettato; ma anche il marxismo nutriva questo desiderio. E lo nutre ogni totalitarismo” (SEVERINO 1995: 41). Insomma, se è vero che la Chiesa condanna a parole ogni forma di autocrazia, è anche vero che essa è di fatto fautrice di una dottrina totalitaria. “La dottrina sociale della Chiesa è totalitarismo perché, anche se ritiene di esserne il rifiuto più radicale, e anche se non vuol costringere nessuno a credere, tuttavia, in linea di principio, essa mira a togliere ogni valore legale al comportamento politico del non credente” (SEVERINO 1995: 59). Non solo la Chiesa è contraria alla libertà di coscienza, essa vuole anche cittadini piccoli, mansueti e sottomessi, e anche un po’ ottusi, che accettano le sue verità senza fiatare, anche quando sono autentiche mistificazioni, com’è avvenuto, per esempio, in occasione della divulgazione del terzo segreto di Fatima.

16.6.2.1 Il segreto di Fatima
Nel lontano 1917 la Madonna appare a tre pastorelli e svela loro tre terribili segreti, due dei quali vengono svelati negli anni immediatamente successivi, ma il terzo, il più terribile, verrà svelato solo nel maggio del 2000, dopo 83 anni! Certo, dopo tanta attesa, la gente si aspettava qualcosa di veramente clamoroso e, invece, la Chiesa svelava che il terribile segreto si riferiva al fallito attentato a Giovanni Paolo II avvenuto nel 1981. Insomma, nel 1917 la Madonna avrebbe confidato ai tre pastorelli un terrificante segreto, e cioè che nel 1981 ci sarebbe stato un attentato al papa, e questo segreto veniva svelato nel 2000. Tale è il succo della questione. Ma era davvero così spaventoso questo segreto da doverlo tenere nascosto per tutti quegli anni? Ed era il caso che la chiesa e i media dessero tanto risalto ad una notizia diffusa così tardivamente, quando l’evento cui essa si riferiva era già vecchio di 19 anni? Perché la chiesa non ha svelato il segreto già nel 1981? Perché la gerarchia vaticana (e i media) non hanno provato imbarazzo per avere divulgato una notizia, tutto sommato non sensazionale, con diciannove anni di ritardo? Perché quella notizia, ormai priva di attualità, risultava ancora vendibile? E con che audience!
Questa vicenda dimostra che il cittadino medio ha scarsa autonomia di giudizio, non è abituato a riflettere e a ragionare, si lascia condurre dall’emozione e dai sentimenti, e gli va bene così. Un cittadino siffatto può essere preso in giro impunemente. Anzi, forse egli stesso ha piacere di essere menato per il naso, perché ciò soddisfa il suo bisogno di sentirsi bambino. E alla Chiesa va ancora meglio, perché può conservare il suo immenso potere senza tanta fatica. Va male invece per la democrazia, che, con questi cittadini acritici e creduloni, non può avere un presente, né tantomeno un futuro.
Così stando le cose, vediamo adesso il diverso modo con cui DD e DR si pongono di fronte all’elemento religioso.

16.7 La religione DD
La democrazia è messa in pericolo in tutti i casi in cui vi sia una tendenza alla concentrazione del potere e alla dogmatizzazione della verità, ed è proprio questo purtroppo che ha caratterizzato l’azione della Chiesa negli ultimi diciassette secoli della sua storia. La Chiesa ha tentato la conquista di due monopoli (il potere politico e quello spirituale), giustificandola con la presunzione di possedere già il monopolio della verità. Ed è qui che dobbiamo vedere la sua pericolosità nei confronti della democrazia, nell’arrogarsi il monopolio della verità. Infatti, come nota Gustavo Zagrebelsky, “Verità e autorità sono ovviamente incompatibili con dialogo e libertà” (2008: 45).
Un cittadino democratico potrebbe chiedersi: perché le verità religiose devono essere più vere delle altre, anzi le uniche verità vere? La risposta è implicita nella natura stessa della r.: perché provengono da Dio, che, per definizione, è perfetto e infallibile. È Dio il garante della verità. Ma Dio esiste davvero, potrebbe chiedersi ancora il nostro cittadino? Nei tempi antichi l’esistenza di esseri spirituali era considerata una cosa ovvia ed erano veramente in pochi a porsi simili domande, anche se, quando ciò accadeva, non era raro che essi giungessero ad una conclusione agnostica o francamente atea. È il caso di Epicuro, il quale così argomentava: “Dio o vuole togliere i mali e non può, o può e non vuole, o non vuole e non può, o vuole e può. Se vuole e non può, è impotente; se può e non vuole, è invidioso; se non vuole e non può, è invidioso e impotente; se vuole e può, come mai esistono i mali?” (TORNO 1995: 165). Alla fine di questa riflessione, Epicuro giungeva alla seguente conclusione: o Dio non esiste o, se esiste, non si occupa del mondo. L’argomentazione epicurea rimane ancora oggi valida e a nulla è servito il tentativo, da parte dei pensatori cristiani, di giustificare il male alla luce del peccato originale di Adamo. Che giustizia c’è, infatti, nell’addossare sui figli le colpe dei padri, nel far ricadere su di noi la colpa di Adamo, che nemmeno conosciamo? E poi, come spiegare la sofferenza degli animali che non discendono da Adamo e neppure possono sperare in una giustizia ultraterrena?
Fino ad oggi, nessuno è stato in grado di fornire una dimostrazione di tipo scientifico, obiettiva e incontrovertibile, dell’esistenza di Dio e le opinioni degli studiosi coprono le più disparate interpretazioni, che vanno dalla fede piena e incondizionata, all’assoluta negazione, passando per tutte le possibili e immaginabili fasi intermedie. Nel corso dei secoli, i pensatori cristiani, in particolare S. Anselmo d’Aosta e S. Tommaso d’Aquino, hanno addotto una serie di prove a dimostrazione dell’esistenza di Do, che però hanno suscitato forti opposizioni all’interno del cristianesimo stesso (CANTELLI 1986: 670) e sono state confutate dai filosofi, da Gugliemo di Occam a Kant, e anche da autorevoli pensatori laici contemporanei, come Richard Dawkins (2007) e John Allen Paulos (2008).
Non è mio intento di addentrarmi nei dettagli di questa intricata questione e mi limito a constatare, con Armando Torno, che essa dev’essere considerata un’”impresa vana” (1993: 10) e, anche se una dimostrazione scientifica fosse possibile, essa risulterebbe incompatibile con la fede. Infatti, come ha osservato acutamente Giuseppe Prezzolini, se si potesse provare Dio, la fede non avrebbe più alcun valore, non essendoci merito in un’operazione logica.
Se l’esistenza di Dio non può essere provata, e non ha nemmeno senso che si tenti di provarla, rimangono quattro alternative possibili: o la si respinge come falsa (ateismo), o la si accetta per vera (fede), o la si ritiene qualcosa di desiderabile e su cui riporre la propria speranza indipendentemente dalla sua veridicità (opportunismo alla Pascal), o la si considera come qualcosa che è al di fuori della nostra portata e su cui è vano pronunciarsi (agnosticismo).
In un sistema DD, tutte queste posizioni sono fatte oggetto del massimo rispetto e si vigila affinché nessuna di esse abbia a prevaricare sulle altre. Così, chi ha fede in Dio potrà anche credere che le verità religiose siano le uniche verità vere, mentre chi la fede non ce l’ha potrà porre le verità religiose sullo stesso piano di tutte le altre verità umane, e lo stesso dicasi di quanti preferiscono un atteggiamento agnostico, che potrebbero disinteressarsi del fattore religioso, e degli opportunisti, che potrebbero scommettere su Dio per semplice convenienza. La DD lascia tutti liberi di aderire a qualunque dottrina religiosa o di professare l’ateismo, purché non pretendano di inculcare negli altri le loro idee e non determinino aggravio economico per lo Stato, ma, soprattutto, purché non presumano di essere portatori di verità superiori e cerchino di imporle agli altri, in qualsiasi modo, peggio se con la forza. Questo si chiama pensiero laico, cioè libero da pregiudizi.
Secondo molti pensatori laici, a volte, la chiesa esercita delle pressioni sullo Stato in modo scorretto e nel non rispetto della legge. Così nel 1998, promosso da Giorgio Bocca, Alessandro Galante Garrone, Vito Laterza, Paolo Sylos Labini e altri, è stato reso pubblico un «manifesto laico», che ha raccolto l’adesione di oltre 25 mila cittadini, alcuni dei quali illustri, come Paolo Flores d’Arcais, Sergio Garavini, Eugenio Garin, Margherita Hack, Margherita Isnardi Parente, Giacomo Marramao, Franco Restaino, Corrado Stajano, Gianni Vattimo, Carlo Augusto Viano, Maurizio Viroli. In particolare, il Manifesto condanna la richiesta della chiesa di aiuti statali per la scuola privata, ritenuta contraria ai dettami costituzionali. L’art. 33 della Cost., infatti, che chiunque può aprire una scuola privata, purché senza oneri per lo Stato. “Noi facciamo una battaglia politica, cui partecipano credenti e laici, affinché la religione resti cosa delle coscienze, nessun insegnamento confessionale entri nella scuola di tutti, nessuna scuola confessionale sia detta pari alla libera scuola dello Stato, nessuna Chiesa possa imporre allo Stato oneri a favore della sua scuola…” (p. 58).
Secondo Gustavo Zagrebelsky, “Le fedi religiose non sono affatto un problema per la democrazia liberale […]. Il problema non sono i credenti, ma è la Chiesa” (2008: 41). Il fatto è che la democrazia non può tollerare che chicchessia, foss’anche il papa, pretenda di far passare un’opinione come l’unica verità ed esiga di imporla a tutti. “Tutti possiamo avere la nostra verità e sceglierci i nostri maestri, ma a nessuno è dato di imporre la propria verità come la Verità” (Zagrebelsky 2008: 91). Il dissidio chiesa/democrazia è inevitabile; e, infatti, “La Chiesa cattolica non ha mai aderito senza riserva alla democrazia né mai l’ha accettata come unico regime legittimo” (Zagrebelsky 2008: 87). Per mentalità e per vocazione, la chiesa è favorevole ad un tipo di governo autoritario, accentrato e paternalistico, e non è per caso che essa costituisce l’unico esempio oggi esistente di monarchia assoluta. Se la democrazia è quel sistema politico dove tutti i cittadini hanno diritto di partecipare al processo deliberativo e di esercitare i diritti di opinione e di parola, e dove tutto è sotto il regno del relativo e dell’opinabile, ebbene, la chiesa è l’esatto contrario. Se chiesa e democrazia sono antitetiche e si escludono a vicenda, ne consegue che dove la chiesa è forte la democrazia è debole, e viceversa, che non si può coltivare la democrazia senza indebolire la chiesa.
Oggi disponiamo dei mezzi necessari perché il popolo possa esercitare effettivamente la sovranità che gli appartiene di diritto, ma per riuscire in questa impresa occorre che i cittadini vogliano diventare adulti. Solo se un numero crescente di cittadini cominciassero ad usare la propria testa, si potrebbe sperare di fondare un giorno una società senza figure paterne, senza sacerdoti e senza re, dove alla logica del potere elitario si sostituisca la logica del potere distribuito fra tutto il popolo. Allora la chiesa potrebbe perdere il suo impianto istituzionale-gerarchico e ridursi ad una questione privata e personale, e, nello stesso tempo, le sue funzioni magisteriali, che la autorizzano a spiegare il mondo e a farsi custode del monopolio della verità, passerebbero alla scienza. Ma, finché il popolo si compiace di rimanere nello stato minoritario in cui è stato relegato per millenni dalle classi dominanti, crogiolandosi nei vantaggi che lo stato infantile comporta, la Chiesa continuerà a tessere le sue trame politiche e a svolgere impunemente le sue antiche funzioni, mentre la democrazia sarà costretta a vivacchiare, se non addirittura ad uscire di scena.
Partendo da questi presupposti, la DD si oppone all’istituzionalizzazione di apparati ecclesiali gerarchici, perché sa dalla storia che questi tendono a creare regimi autoritari, a coartare le libertà personali, a edificare recinti culturali, ad alimentare un clima di intolleranza, se non di odio, che si può estinguere solo col ricorso alla forza. E tutto ciò non può, ovviamente, che opporsi all’attecchimento dei valori democratici. La DD rammenta che mai una guerra è stata combattuta in nome dell’ateismo o dell’agnosticismo, per la semplice ragione che queste posizioni implicano e si accompagnano al rispetto dell’altro. “Le guerre di religione, invece, sono combattute in nome della religione e sono state orribilmente frequenti nel corso della storia” (DAWKINS 2007: 275).
In conclusione, la DD non può essere che laica, non può non riconoscersi nei valori della laicità, che consistono principalmente nell’accettazione incondizionata dell’altro e nell’etica relativista. Secondo Stefano Rodotà, il laico deve “essere capace di esprimere con forza e convinzione il suo punto di vista, ma al tempo stesso deve lavorare perché vi siano le condizioni per un confronto aperto e continuo tra i diversi punti di vista” (2009: 111). Come correttamente osserva Franco Crespi, “La cultura laica, ponendosi criticamente nei confronti di ogni forma di assolutizzazione ideologica, è l’unica oggi in grado di riportare l’attenzione sui problemi concreti della vita quotidiana, sui bisogni materiali e un’equa distribuzione delle risorse, ma anche sul desiderio di felicità e di autorealizzazione” (2008: 25-6). La laicità è la condizione irrinunciabile per il rispetto reciproco delle persone, ed è anche, come nota Rodotà, “una dimensione della libertà, uno strumento per la libera formazione della personalità, un elemento essenziale per la convivenza” (2009: 60). In definitiva, la laicità è la piattaforma, insieme al relativismo, da cui la DD prende le mosse per giungere al rispetto dell’unicità e della diversità della persona e al suo “riconoscimento dettato dall’amore” (CRESPI 2008: 95). Chiudo ricordando le seguenti parole di Bertrand Russell, con cui la DD si identifica: “Il mondo non ha bisogno di dogmi; ha bisogno di libera ricerca” (1997: 172).

16.8. La religione DR
Un sistema DR consente che la r. assuma i caratteri strutturali di un centro di potere politico, economico e spirituale. Per quel che attiene il potere economico, basta leggere i recenti libri di Curzio Maltese, La questua (2008), e di Claudio Rendina, La santa casta della Chiesa (2009), per rendersi conto che la chiesa non solo gestisce, spesso in modo poco trasparente, enormi risorse finanziarie, che in buona parte derivano dalle casse dello Stato, ossia dalle tasche degli italiani, anche dei non cattolici, ma usufruisce anche di un potere enorme sulle istituzioni politiche e sulle persone, che non ha sempre gestito in modo edificante, come ci si aspetterebbe da un’emanazione di Dio. Grazie alle sue risorse, la chiesa può disporre di network e di organi di stampa che, in aggiunta alla presenza capillare delle parrocchie, la mettono in grado di raggiungere ogni casa.
I governi occidentali, che annoverano nelle loro fila molti politici cattolici, la sostengono per molte ragioni, non ultima quella del consenso, e in molti modi: attribuendole l’otto per mille e altre agevolazioni fiscali, finanziando le scuole cattoliche, riconoscendole una speciale autorità morale e privilegi nei confronti di altre religioni, affidandole la formazione spirituale dei cittadini e perfino lasciando che essa si appropri della coscienza dei bambini. Infatti, non c’è oggi al mondo paese civile che non accetti “l’idea assurda che sia giusto e normale inculcare nei bambini piccoli la fede dei genitori e marchiarli con etichette religiose («bambino cattolico», «bambino protestante», «bambino ebreo», «bambino musulmano» ecc.) che non hanno equivalente in nessun altro campo: non ci sono per esempio bambini conservatori, bambini progressisti, bambini repubblicani, bambini democratici” (DAWKINS 2007: 333).
La DR appoggia la chiesa, la quale si oppone alla democrazia partecipativa e appoggia la DR. Questo è il circolo vizioso e perverso che tiene lontana la democrazia diretta dai nostri paesi e le impedisce di mettere radici fra la gente.

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